Come spiegare la storia del comunismo ai malati di mente ha aperto a Catania, la settimana scorsa, la rassegna di teatro contemporaneo ed innovazione Te.St., parte del cartellone dello Stabile cittadino. La prima nazionale dello spettacolo ha suscitato grande interesse tra pubblico, critici e giornalisti proprio per la scelta di portare avanti una rassegna innovativa che, proponendo drammaturgia contemporanea, è spesso conosciuta solo dagli addetti ai lavori. La speranza, invece, è proprio quella di arrivare ad un pubblico più vasto, come in parte è stato. Uno spettacolo attualissimo, interessante per chi conosce il teatro contemporaneo europeo, seppure, forse, di più faticosa interpretazione proprio per quel pubblico “comune”.
Il testo, scritto dal rumeno Matei Visniec, drammaturgo, poeta e giornalista che ha chiesto esilio politico in Francia, dove vive e lavora ancora oggi, viene tradotto da Sergio Claudio Perroni e messo in scena dal giovane regista pugliese Gianpiero Borgia, che peraltro interpreta uno dei personaggi. Il passaggio dal testo alla regia appare fedele pur proponendo Borgia scelte registiche interessanti, in parte diverse rispetto al testo originale e alle didascalie dell’autore.
Il pubblico entra nella sala del Centro Culturale Zo passando sul proscenio, su cui giacciono diverse camicie di forza, immediato riferimento al titolo della pièce. Un luogo tetro, illuminato da luce glaciale, forma tre piccoli spazi scenici. A destra un quadrato sopraelevato con tavolo, sedie e mezzo busto di Stalin; a sinistra un altro piccolo palchetto sopraelevato rappresenta la stanza del manicomio dove verrà ospitato lo scrittore Yuri.
Al centro un espediente scenico fondamentale all’intera pièce: delle sbarre mobili, simbolo del manicomio-prigione ma, soprattutto, della prigionia mentale e psicologica di un’intera società sottoposta e sottomessa ad un’ideologia che, portata ad estremismi, diventa assoluta follia. Saranno proprio queste sbarre mobili, poste davanti al pubblico, a procurare nello spettatore l’impulso a “sbirciare” attraverso le grate, creando un effetto di “quarta parete”. Anche il mondo esterno viene visto attraverso una finestra con grate, da cui i malati vedono passare le persone che vivono nel mondo reale, puntando delle monete come in un immaginario gioco al casinò.
L’intero spettacolo è un enorme paradosso: il famoso scrittore Yuri Petrovsky viene invitato a spiegare ai malati di mente la storia del comunismo. Angelo Tosto, nei panni di Yuri, si apre ad una recitazione interessante, spesso silenziosa, profondamente mimica, facciale, ironica, ma viva, soprattutto quando entra in sintonia con i malati, capendo di aver colto la loro essenza reale. E tanto da riuscire a fondersi con loro.
Nelle sue parole e nei suoi scritti l’esaltazione del regime è altamente ironica: insomma è un controrivoluzionario, un rivoluzionario alla rivoluzione, quindi anche lui un potenziale “malato mentale”.
La censura avrebbe colpito il testo di Visniec (così come è successo spesso) se non avesse utilizzato questi espedienti. Yuri parla di “utopia”, ne fa una descrizione quasi poetica e i malati imparano subito la parola, il concetto.
La follia di una dittatura politica rende tutti coloro che appaiono sani di mente degli effettivi malati: dal direttore del manicomio, alla sensuale infermiera, al braccio destro dello stesso direttore.
Paradossalmente, invece, coloro che vengono considerati dalla società dei malati, sono gli uomini sani, “infettati” dal lavaggio politico dei loro cervelli.
Ma è la zona “libera”, creata nei sotterranei, l’unico spazio in cui poter esprimere la propria vera identità, pur sempre pazzoide, spogliandosi della camicia di forza e vestendosi di abiti pacchiani e colorati.
Sono proprio questi malati a movimentare alcuni punti dello spettacolo un po’ ripetitivi e statici (del resto l’ossessività è un tema predominante), ricordando l’espediente del coro greco, soprattutto nei movimenti plastici, onirici, irreali; anche se non si possono non ricordare i membri della Casa di Cotrone pirandelliana ne I giganti della montagna.
Nel manicomio i malati vengono avvicinati alla musica e al balletto, arti rivalutate nel periodo della dittatura sovietica poiché si collegano all’esaltazione dell’uomo. Ma canti e balli sono ossessivi, ripetitivi, legati alla cultura stalinista: l’arte degenera nella pazzia dell’imposizione politicamente culturale, proprio come i Giganti pirandelliani distruggevano “la fantasia”, la libertà artistica di Cotrone e compagni.
Tra gli attori principali, tutti siciliani, emerge Annalisa Canfora nel ruolo dell’infermiera. Da sottolineare l’ottima l’interpretazione dei malati, alcuni dei quali interpretati da giovani studenti universitari catanesi e studenti della scuola di teatro dello Stabile. Ma l’ultimo pensiero, sottolineato dagli applausi commossi che seguono quelli finali di rito, va ad Elisa, fra le giovanissimi attrici della scuola, morta improvvisamente sulla scena durante le prove.
Come spiegare la storia del comunismo ai malati di mente
di Matei Visniec
traduzione: Sergio Claudio Perroni
regia: Gianpiero Borgia
scene: Giuseppe Andolfo
costumi: Giuseppe Avallone
musiche: Papaceccio M.C.
movimenti coreografici: Donatella Capraro
luci: Franco Buzzanca
con: Angelo Tosto, Annalisa Canfora, Christian Di Domenico, Giovanni Guardiano, Daniele Nuccetelli, Alessandra Barbagallo, Giorgia D’Acquisto, Salvo Disca, Liborio Natali, Chiara Seminara
produzione: Teatro Stabile di Catania
durata spettacolo: 2 h 15’
applausi del pubblico: 2’
Visto a Catania, Centro Culturale Zo, il 5 dicembre 2008