All’inizio li vedi stare là, in una posa quasi incurante, come se non avessero alcun apparente interesse per la loro presenza scenica, per come tu li stai guardando. Scuotono la testa, si lanciano sguardi preoccupati, e non sai davvero capire se la recitazione non c’è affatto, e quello è il reale fastidio per la sala dell’Argot pienissima e qualche amico magari lasciato fuori, oppure se c’è dietro una bella trovata, che come le migliori trovate ti coglie alla sprovvista, senza lasciarsi riconoscere. E così è.
Loro sono i ragazzi di “Ecce Performer”: vengono da un laboratorio di due settimane curato da Elvira Frosini, di cui ora presentano il risultato, “Apocalisse sobria. Appunti di lavoro”. Il testo è stato scritto da altri due giovani (non in scena), grazie al confronto con tutti i partecipanti e alla coordinazione di Attilio Scarpellini (collaborazione di Daniele Timpano).
Dicevamo del fastidio, dell’insofferenza che i performer ora ostentano, oltre alla mimica, anche con le parole. In breve tempo se ne capisce la causa: un orizzonte lontano, scrutato con insistenza, la cui infertilità non concepisce alcuna risposta alle attese dei ragazzi, che vorrebbero da lì un suggerimento, un accenno di presenza, un arrivo, uno schizzo di futuro.
Qualcuno fraintende il vuoto, si illude nella messa a fuoco di un oggetto presunto e mai reale; qualcun altro, quando l’illusione diventa collettiva, preferisce adeguarsi al gruppo nonostante continui a non vedere niente, simulando senza troppa efficacia l’entusiasmo dell’attesa. Servirebbe, per uscire dalla stasi, un’apocalisse: ma che sia sobria. Un’apocalisse sobria: dall’ossimoro del titolo non si riesce ad uscire, perché è davvero difficile capire quanto quel riferimento alla sobrietà serva solo a dileggiare i tecnici al governo («Mi pento: confesso di aver desiderato il posto fisso, di aprire un mutuo per la casa», urla col suo cilicio immaginario uno dei performer) o se sia un invito a ritrovare la rabbia, a scriverle una letterina, senza dimenticarsi però di indirizzarla bene.
In effetti il palco non è esattamente il regno del sobrio: i protagonisti – come suggeriscono le note di regia – provano a dare risposte biografiche al vuoto di prospettive.
Ci si può compiacere della versione soft e ipocrita dell’atarassia delle discipline orientali, o al contrario lasciarsi attraversare dal brivido sessuale della violenza, diventando una specie di derviscio a canne mozze. Scommettere su tutto, ovviamente, oppure continuare a chiamare relax il parossismo delle palestre e del salutismo radicale. O ancora, ci si può scambiare sms con il Sistema, cercare di guarire dalla rabbia come da un’ernia cervicale o da una congestione.
Tanti antidoti diversi allo stesso problema, cioè a quel deserto dei tartari da cui continuano a non arrivare immagini, miti, neppure miraggi.
Siamo nel grande feudo del paradosso: difficile distinguere le individualità, il sincero dall’affettazione; non ci si stupisca, allora, se a un certo punto le parole forse più autentiche dello spettacolo sono proferite da uno che dovrebbe essere morto, ucciso pochi minuti prima.
L’elemento di maggior continuità drammaturgica rimane comunque il periodico scrutare verso l’orizzonte mancante: come in un Beckett con più corpo e più dinamismo. Ma sono forse più interessanti le affinità con “Giro solo esterni con aneddoti”, recente vincitore del Dante Cappelletti: in entrambi i lavori si sfrutta largamente una sorta di gioco con l’invisibile, che non è solo l’invisibile simbolico di cui il teatro non potrebbe mai fare a meno, non è la presenza simulata di ciò che è impossibile o troppo difficile rappresentare, bensì un vero e proprio motore ironico e drammaturgico, è l’assenza che – non perdendo nulla della sua intangibilità, del suo non corpo – viene quasi costretta a stare lo stesso lì, nello spazio teatrale, sul palco o proiettata in un punto indefinito della platea.
E questo forse ci dice anche qualcosa di più sul perché “l’Apocalisse sobria”, nonostante il nichilismo dei contenuti, non ci sia sembrata nichilista nell’anima.
A distinguere il lavoro di Elvira Frosini e dei suoi ragazzi, rispetto ai fin troppo inflazionati affreschi negativi della società italiana, c’è una sorta di vivacità critica, o meglio, di vera e propria insaziabilità critica, scevra di santi e di schemi da seguire, ansiosa solo di smascherare il falso – o forse soltanto il buffo – ovunque e in qualsiasi forma si presenti.
Così si fa la collezione dei vuoti dietro la pletora del mondo, è vero: ma ci si muove inaspettatamente tanto. Se si è critici fino in fondo, come qui succede, si sarà poi critici anche con il dogma stesso della negazione. E se è vero che l’orizzonte inesistente di questi ragazzi, così come le cattedrali eteree di “Giro solo esterni”, possono diventare scenicamente il punto di partenza dell’azione, ovvero manifestare una conseguenza senza causa, allora le stesse vacuità di questa epoca che si sta aprendo (o sta finendo?) potranno diventare il fondamento vuoto di un’etica. Un’etica senza oggetto, come la fede di Raimon Panikkar. L’etica del nonostante tutto.