Eugenio Barba e l’Odin: “Il nostro teatro concittadino, ma non compatriota”

Eugenio Barba a Bologna nel 1990 per il 6° Ista|Eugenio Barba
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Eugenio Barba
Eugenio Barba a Holstebro nel 2010 (photo: Tommy Bay)
«Il teatro – scriveva Eugenio Barba – è un’isola galleggiante, un’isola di libertà. Derisoria, perché è un granello di sabbia nel vortice della storia e non cambia il mondo. Sacra, perché cambia noi».
L’Odin Teatret, dopo essere stato a Roma, arriva in Emilia-Romagna con una serie di spettacoli e incontri tra Bologna e Ravenna, da oggi al 22 marzo.

Barba è considerato dalla critica internazionale uno degli ultimi grandi maestri del teatro occidentale e uno dei più importanti intellettuali europei. Unendo la tradizione della parola del teatro occidentale con la sapienza del movimento di quella orientale ha fondato l’Odin Teatret ad Oslo nel 1964, e due anni dopo si è trasferito definitivamente con la sua compagnia in Danimarca, dove ancora oggi lavora.

La sua poetica ha tracciato la strada per molti grandi registi internazionali ed ha scritto alcune tra le più significative pagine della storia delle arti dell’ultimo secolo.
Ancora oggi, a 77 anni, ha una vitalità e un’energia artistica innovativa che pochi ventenni possono vantare. Abbiamo avuto l’onore di intervistarlo.

Nella sua carriera ha avuto modo di vivere in prima persona diverse fasi della storia contemporanea del teatro e tutte le sue evoluzioni. Secondo lei, in un momento travagliato come questo, segnato dalla crisi economica da una parte e dal dominio della tecnologia dall’altra, che direzione potrebbe prendere il teatro?
Oggi il teatro è costituito da una molteplicità di espressioni con diversi obiettivi, tecniche e spettatori. L’essere umano ha sempre sentito due necessità: confrontarsi a una narrazione con la quale identificarsi o distanziarsi, e celebrare momenti particolari della propria vita e storia. Anche se oggi esistono numerose forme spettacolari basate sulla tecnologia, questa due necessità rimarranno vive nel futuro. Solo i profeti possono prevedere la direzione dei mille teatri di domani. È certo, però, che questa attività dalle mille facce continuerà con le sue vocazioni di bellezza, intrattenimento, preghiera, ribellione, terapia, evasione, lucro e mediocrità.

Lo spettacolo “Le grandi città sotto la luna” nasce da una vecchia suggestione, quella dello spettacolo “Le ceneri di Brecht” del 1980, ma è diventato un progetto molto diverso: cosa rimane di allora? Il messaggio di Brecht è mutato nel suo significato in questi trent’anni, in un’epoca così diversa da quella di allora?
“Le grandi città sotto la luna” può essere interpretato in molti modi, per esempio: la capacità dell’essere umano di difendersi dall’orrore grazie all’indifferenza. Qual era il messaggio di Brecht, poeta nichilista e ribelle contro tutte le ortodossie, che soffrì l‘esilio e il bavaglio politico? Lui credeva che nella nostra società esiste l’ingiustizia e si calpesta la dignità dell’individuo. Si è opposto a questi oltraggi con la coerenza della sua vita e creando uno straordinario teatro, il Berliner Ensemble, una vera isola di libertà nel cuore di una dittatura. Il merito politico dell’Odin è un altro. Exe Chritoffersen, uno storico del teatro danese, afferma che negli ultimi quarant’anni, tutti i paesi europei hanno sviluppato la tendenza a sottolineare l’identità nazionale della propria cultura.
L’Odin Teatret è invece un gruppo di emigrati stranieri accolti dalla cittadina danese di Holstebro nel lontano 1966, e che ha saputo farsi accettare come l’espressione teatrale della sua comunità pur mantenendo la sua differenza. Un teatro concittadino, ma non compatriota.

Per lo spettacolo avete preso spunto anche da alcune poesie di Ezra Pound, che è stato calato nell’atmosfera brechtiana in cui si parla di guerre, esilio e del dover far apprendere ai propri figli la lingua dei barbari. Il teatro dell’Odin è invece stato caratterizzato proprio dall’unione e dalla mescolanza di tradizioni teatrali lontanissime, ma in qualche modo inconsapevolmente collegate.
Cosa rende possibile questa strana alchimia? Crede che esista un linguaggio universale che va oltre quelli codificati?

Esistono situazioni che provocano reazioni universali: un adulto che picchia un bambino, un uomo che viola una donna; un relitto umano, sporco e bavoso, che tende la mano; lo sguardo vuoto di un drogato; un gruppo di bambini che giocano insieme nella strada; una madre che allatta il figlio; una persona che ami e che rantola tra le tue bracca; la rabbia per la propria impotenza contro il sopruso; l’amarezza per un’umiliazione subita; la leggerezza dell’essere innamorati; l’emozione indescrivibile della bellezza. Forse le potremmo chiamare situazioni archetipiche.
Come regista non cerco un linguaggio universale, ma il cammino per arrivare a quello strato della geologia interiore dello spettatore che ha incapsulato l’esperienza delle situazioni che ho accennato sopra.    

Eugenio Barba a Bologna nel 1990 per il 6° Ista
Eugenio Barba a Bologna nel 1990 per il 6° Ista (photo: Fiora Bemporad)
Messa in scena, rituale sociale, arte. Se dovesse dire cos’è per lei il teatro, quali termini utilizzerebbe?
Una cerimonia collettiva che può trasformarsi in spettacolo estetico, seduta terapeutica, preghiera laica, meditazione storica, passatempo sapido o scialbo, rivitalizzazione dei legami comuni, consapevolezza della lacerazione della società in cui viviamo.

Eugenio Barba è un nome che appare sui libri di storia del teatro accanto a quello di Grotowski e Peter Brook. A Eugenio Barba è mai capitato di dubitare del teatro? Dubitare che il teatro possa avere un significato profondo nella nostra epoca così frenetica e dalla memoria così corruttibile?

Posso garantire solo che il teatro ha un significato profondo per me e per i miei attori, che mi sono rimasti accanto per decadi. Ma ho incontrato molti spettatori per cui l’Odin Teatret ha rappresentato una caduta da cavallo sulla via di Damasco, e quando si sono rialzati hanno preso un cammino diverso.
 
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