Con gli Open Studios, a Castrovillari le proposte di tanti artisti in residenza per una prima parte di festival dedicata a sperimentazioni e nuove contaminazioni
Una Primavera dei Teatri lunga dieci giorni con ben 55 appuntamenti, dal 23 maggio al 2 giugno, fra teatro, danza, musica, performance, residenze, workshop e mostre, per un festival che, arrivato quest’anno alla XXIV edizione, ha saputo rinnovarsi proponendo nuovi percorsi ma senza mai perdere l’identità ben consolidata di spazio di confronto e dialogo per il nuovo teatro al Sud.
Una proposta quanto mai variegata ed eterogena quella a cui anche noi quest’anno abbiamo assistito, raggiungendo Castrovillari, ai piedi del Pollino.
Il festival diretto da Dario De Luca, Saverio La Ruina e Settimio Pisano, anime della compagnia Scena Verticale, si conferma catalizzatore di idee e stimoli, non un semplice contenitore di appuntamenti ma una occasione di condivisione per il territorio, artisti, pubblico, addetti ai lavori che, anche quest’anno, hanno partecipato numerosi per un appuntamento che segna l’apertura della lunga stagione estiva dei festival.
Fra le novità di quest’edizione vi è certamente la sezione denominata “Prima”, pensata come piattaforma internazionale per contribuire al percorso creativo di giovani artisti operanti nell’ambito della danza e della performance. Dal 23 al 27 maggio, quindi, come una sorta di prologo, è stato possibile entrare in contatto con lavori in fieri e in trasformazione degli artisti in residenza presenti, che hanno incontrato il pubblico nei vari spazi dedicati alle differenti performance.
A comporre “Prima” è stata la sezione “Open Studios” con gli artisti in residenza Annamaria Ajmone, Giovanfrancesco Giannini – Fabio Novembrini e Roberta Racis, Danila Gambettola, Maria Luigia Gioffrè, Leo Schifino, Mauro Lamanna, Dario Rea – Maher Msaddek, e una sezione di programmazione dedicata ad artisti nazionali e internazionali che hanno potuto condividere i loro percorsi già avviati, da Chiara Bersani a Mauro Lamanna e Aguilera Giustiniano (duo già apprezzato in una passata edizione del festival), e poi Dalila Belaza, Maria Hassabi, Chara Kotsali, Roberta Racis, Marco da Silva Ferreira, Elena Antoniu, Ginevra Panzetti ed Enrico Ticconi, ed Arkadi Zaides che, con “Necropolis”, ha chiuso la prima parte del festival dedicata alla sperimentazione e alla commistione dei linguaggi.
Di spalle, insieme ad Emma Gioia, l’artista bielorusso, con “Necropolis” ha condotto il pubblico in un viaggio virtuale, terribile e devastante, alla scoperta di quei moltissimi luoghi dove corpi senza vita e senza nome giacciono: migranti e rifugiati vittime di quei viaggi alla ricerca di un futuro migliore che si trasformano in tragedie. Dare voce e corpo a quella città dei morti senza nome a partire dalla lista redatta da UNITED for Intercultural Action, costantemente aggiornato grazie al lavoro del network di centinaia di organizzazioni antirazziste europee che si avvale della collaborazione di attivisti, giornalisti, esperti e ricercatori.
Questo il materiale attorno al quale il coreografo ha costruito il teatro documentario che invita a riflettere e ad indignarsi; mentre sul finale Zaides e Gioia abbandonano schermi e dispositivi nel tentativo di comporre un corpo su un tavolo (poi proiettato sullo schermo) a partire da brandelli di carne e vestiti, per una macabra danza senza voce e senza applausi, perché la realtà dei fatti è ancor più drammatica.
Spazio poi ad una fitta programmazione: molti i debutti di questa edizione; ne condividiamo alcuni nel tentativo, seppur parziale, di ricostruire una breve ricognizione delle tante proposte che certamente ritroveremo nella lunga stagione dei festival.
Fra i debutti più interessanti “Mare di ruggine”, testo e regia di Antimo Casertano, in scena come una sorta di narratore a tessere le fila di una vicenda che è personale e universale insieme.
“Mare di ruggine” mescola la storia di una famiglia (che è quella dell’autore) lungo cinque generazioni, fra sogni e speranze, progetti di vita e percorsi interrotti e, al contempo, quella dello stabilimento ex Ilva, poi Italsider, di Bagnoli, una delle tante ferite aperte del nostro Paese e di una comunità costretta a scegliere fra diritto al lavoro e salute. Un mosaico di voci e personaggi, di aneddoti e storie per una narrazione fin troppo carica.
Storia familiare intima e raccolta, che si sviluppa lungo un filo fatto di parole e silenzi, è “Tutta colpa di Ugo”, drammaturgia e regia di Elvira Scorza, produzione Dracma di Polistena.
Protagonisti due fratelli e la loro stramba routine, in cui un tenero umorismo viene squarciato da un disagio crescente, che si palesa denso con l’arrivo di un terzo personaggio, l’Ugo del titolo, che scoperchierà il vaso di Pandora del non detto di una famiglia come tante, che come tante nasconde spesso segreti indicibili.
Con “Spezzata. Rapsodia per intercessione del silenzio” siamo di fronte ad una parola drammaturgica interrotta e reiterata finemente cesellata (il testo è di Fabio Pisano), consegnata attraverso corpo e voce di Mariangela Granelli, per la regia di Livia Gionfrida, a raccontare l’esistenza lacerata di Lisa Montgomery.
Lisa è una donna condannata a morte per essersi macchiata di un atroce delitto, ma ancor prima è stata una bambina privata della sua innocenza, di ogni forma di amore, abusata dal patrigno e costretta a subire ogni genere di violenza in silenzio. La sua esistenza senza voce, la sua vita di donna “più spezzata del mondo”, come definita dal pool di psicologi che si sono occupati di lei, viene resa a metà fra una veglia e un sonno/incubo, durante il quale si palesano figure che la accompagneranno all’epilogo finale.
Poetico, magico, struggente e profondamente umano il “Pinocchio – che cos’è una persona?”, spettacolo di Davide Iodice, artefice della Scuola elementare del teatro, esperienza felice e dirompente di un teatro che è vita nell’arte, condivisione oltre limiti e fragilità.
In scena un gruppo di ragazzi con i propri familiari che, attraverso la parabola di Pinocchio, si confrontano con i propri desideri e le rispettive paure, le delusioni e le occasioni che la vita può offrire loro. Un rito collettivo che mette al centro la persona e le sue molteplici possibilità, una favola della contemporaneità capace di condurre in un mondo altro e, al contempo, di far riflettere su temi come il “dopo di noi” senza forzature o retorica, ma attraverso il potere dell’ascolto e della condivisione.
I brani della grande Mina e le storie delle donne della casa circondariale di Messina, in cui fiorisce la positiva esperienza del teatro Piccolo Shakespeare diretto da Daniela Ursino, e poi musica, ricordi e sentimenti compongono “Vorrei una voce”, di e con Tindaro Granata, un inno alla possibilità di tornare a sognare attraverso il teatro che è vita e condivisione di storie e speranze sublimate dall’arte della grande cantante.
In scena, Granata dialoga con l’artista e insieme con le ragazze, che si fanno protagoniste attraverso la sua voce e il suo corpo. Paillettes e abiti sgargianti e sullo sfondo canzoni che hanno unito generazioni, proposte dall’artista siciliano attraverso un playback che diventa occasione per dar voce a storie di donne che hanno smesso di sognare ma anche alla sua vicenda personale.
Torneremo per un ultimo sguardo su Primavera dei Teatri nei prossimi giorni, per parlarvi del bello spettacolo dei padroni di casa, Scena Verticale, con “I 4 desideri di Santu Martinu – Favolazzo osceno adatto ad essere recitato dopo i pasti”.