
Lo sguardo altrove: è il titolo dato alla XII edizione di Hangartfest, festival della scena indipendente, che si è svolto a settembre a Pesaro. Il titolo è pienamente giustificato dal legame che il festival ha stabilito, oltre che con AMAT, con alcuni partner europei – Highs & Low festival di Amsterdam, Sånafest della Norvegia e Caressez le Potager di Marsiglia – e con una realtà un po’ sui generis come quella di No Man’s Island – Solitudini da osservare di Macerata, rassegna permanente di drammaturgia e critica.
Ma l’altrove suggerito dal titolo è anche negli spazi informali che ospitano le iniziative, quest’anno raccolte nell’ex Chiesa della Maddalena, luogo suggestivo di visione e ascolto. La pianta circolare dell’edificio infatti raccoglie il pubblico intorno allo spazio scenico con una accoglienza altra rispetto alla rigida frontalità del teatro, mentre la struttura a volte conduce, amplifica e modifica il suono in una sorta di “surround sound” affidato esclusivamente all’architettura.
C’è anche un altrove culturale, nella ricca articolazione delle proposte. Due conversazioni con artisti, filosofi e operatori hanno messo in rapporto la danza con le sfide sociali e culturali che la società attuale pone. Il Meeting Point con i partner europei e italiani del festival è stato come sempre piacevole per la possibilità di ascoltare approcci ed esperienze diverse; il grande festival di Civitanova Danza è sembrato un pachiderma a confronto con il Sånafest norvegese, nato per unire due piccoli villaggi, Son e Hølen, lungo il fiume che li collega, un festival che ha fatto della connessione tra arte e territorio il suo punto di forza.
Così come è stato interessante ascoltare Marco Beccherini (italiano trapiantato in Francia da molti anni, direttore artistico di Caressez le Potager) raccontare la modalità molto ‘free’ di composizione della sua rassegna e l’esperienza di congiunzione tra danza e discariche, non in un’ottica di riqualificazione, bensì di promozione, esemplificazione di unione fruttuosa tra sistemi produttivi e artistici.
Non sono mancati i seminari, affidati in questa edizione a Frey Faust, danzatore e pedagogo, da anni impegnato a condividere in tutto il mondo la sua più che ventennale ricerca sul movimento. Una ricerca che ha dato vita a un rivoluzionario sistema di approccio al movimento e alla danza, l’Axis Syllabus, intorno al quale ruota una vera e propria comunità impegnata a ragionare sui vari aspetti connessi: la fisica, la biomeccanica, l’anatomia, la biologia, la pedagogia e l’eticità dell’insegnamento.
Hangartfest ha proposto anche due vetrine: “Aliens”, progetto a cura della coreografa italo-giapponese Masako Matsushita, e “Essere creativo”, bando promosso su scala europea rivolto a coreografi emergenti, a cui hanno partecipato ben 171 artisti provenienti da 26 Paesi diversi.
Le candidature ammesse alle selezioni sono state 136 e, tra queste, una rosa di 33 lavori ha superato la prima fase di selezioni. La seconda fase ha visto al lavoro due diverse commissioni di esperti, nonché un gruppo di spettatori non esperti chiamato Explorer. Cinque i lavori selezionati, che sono stati presentati al Teatro Sperimentale di Pesaro nella serata finale del festival.
In scena i lavori di Giovanni Leonarduzzi, Howool Baek, Jordan Deschamps, Simone Wierod, Alexis Kyriakoulis e Natasa Frantzi. Indubbie capacità tecniche e presenza scenica hanno contraddistinto tutti i brani presentati, ma in tutti si è anche evidenziata una debolezza drammaturgica che non permetteva ai lavori di decollare, lasciandoli in qualche misura appiattiti sulla bravura e la trovata.
Stessa sensazione si è avuta nei confronti dell’altra vetrina “Aliens”, che ha visto in scena Tommaso Monza e Andrea Baldassarri, Heidi Jessen e Sigrid Marie Kittelsaa Vesaas, la stessa Masako Matsushita non in qualità di coreografa ma come interprete di un brano di Clare Daly, e Elda Gallo anch’essa interprete di una creazione di Milan Ujvari e Bea Egyed. Brani più sperimentali rispetto a quelli visti per “Essere creativo”: scelte sceniche più articolate, materie di movimento meno legate ai canoni più identificabili di correnti o tipologie di danza; anche questi brani però sono stati penalizzati da una sorta di fragilità nella messa in scena e nell’uso degli strumenti che la riflessione sull’osservazione di un qualunque oggetto scenico suggerisce.
Sicuramente più maturo ”Coup de Foudre” di Lisa de Boit e Rudi Galindo, alias Teatro Pachuco, un duo dal sapore clownesco che di questa tradizione ha tutto: le valigie, i cappelli, gli ombrelli, i nasi rossi, le sberle finte, la colonna sonora retrò, l’ammiccamento al pubblico. L’indubbio “mestiere” dei due interpreti lo rende piacevole, forse un po’ estraneo alle altre proposte più sperimentali che lo spazio sacramentale della Chiesa della Maddalena ha ospitato. Uno spazio in cui si è invece perfettamente integrata “Loto – dal fango nascerai pura e illuminerai il mondo”, performance di butho realizzata da Soyoko Onishi con interpreti formatisi nel corso di seminari tenuti dalla stessa danzatrice.
Anche qui sono presenti tutti i temi caratteristici del genere: la rarefazione dei tempi, la nudità, il bianco e il grottesco dei corpi, la contorsione dei movimenti. Interessante il tappeto sonoro creato live da Daniele Javarone e Simona de Santis, la cui voce cerca gli anfratti e le risonanze della chiesa per farsi anch’essa interprete e non mera accompagnatrice, finchè la voce stessa diventa corpo contorto in cerca di rinascita.
Il confronto ha reso però ancor più didascalica la scelta operata da Sayoko Onishi per il suo solo di utilizzare “Un bel dì vedremo”, la famosissima aria della Madama Butterfly, un già detto per noi occidentali dal sapore scontato.
Un pubblico attento e numeroso ha seguito gli eventi della rassegna, buon segno di una comunità non scontata e interessata alle varie declinazioni che la danza contemporanea offre.