Il Teatro Carlo Felice di Genova ripropone l’allestimento dell’opera verdiana del regista lettone
La versione de “I due Foscari”, in scena di recente al Teatro Carlo Felice di Genova con la regia di Alvis Hermanis, è stata una riedizione pedissequa dell’allestimento dell’opera verdiana andata in scena al Teatro alla Scala di Milano nel febbraio 2016. La messa in scena di allora, che vedeva Placido Domingo nel ruolo (baritono) del doge Francesco Foscari, raccolse pareri contrastanti sia dal punto di vista registico che musicale: sostanzialmente si tacciava Hermanis di una regia poco “coraggiosa” e si apprezzava sì l’approccio drammatico di Domingo ma non quello puramente tecnico tardo-baritonale.
Prendendo atto che si è trattato di un allestimento molto famoso – trasmesso in diretta su Classica HD – e che sono passati sette anni, siamo tornati a vedere quest’opera con lo sguardo “vergine” di uno spettatore genovese qualsiasi del Carlo Felice, teatro dove il titolo mancava da 100 anni.
Pur non essendo di fronte a una Traviata o a un Trovatore – lo stesso autore, dieci anni dopo la prima del 1844 al teatro Argentina di Roma, la criticherà aspramente riconoscendola come superata e troppo cupa – l’occasione di una nuova rappresentazione è buona per dare un occhio, e orecchio, alla composizione verdiana proprio agli inizi dei suoi famigerati “anni di galera” (dal 1842 al 1868) che lo vedono protagonista indiscusso dei teatri italiani (e non), anni in cui Verdi diventa il “Verdi” del mito e della storia, ma anche per apprezzare la scrittura del “fedele” librettista Francesco Maria Piave, poeta al contempo geniale e misurato, vero artigiano pragmatico e lirico del verso in musica.
La trama, dal romanzo “The two Foscari. An historical Tragedy” di George Byron, narra il dramma dell’ormai anziano Doge di Venezia Francesco Foscari, costretto a processare il presumibilmente innocente figlio Jacopo, condannato di omicidio e tradimento; uomo di alto valore etico e senso dello stato, il Doge, nonostante le implorazioni della nuora Lucrezia, decide di non esporsi nel processo, pur soprassedendolo, e lasciando il giudizio al Consiglio dei Dieci e alla Giunta (animati dal consigliere Loredano, assetato di vendetta).
Arrivata la condanna di esilio nelle carceri di Creta per Jacopo, il vecchio Foscari viene doppiamente beffato nel finale, quando il suono della campana dogale segna che è stato eletto un nuovo doge, e dunque muore, spodestato e addolorato, cantando la sua tragica fine: «D’un odio, d’un odio infernale/ la vittima sono/ più figli, più trono, / più vita non ho!».
La messa in scena di Alvis Hermanis, che oltre alla regia firma anche le scene, è un grande omaggio iconografico alla città di Venezia (sin dall’ingresso in sala il pubblico ha di fronte una gigante riproduzione disegnata del leone di San Marco con il doge inginocchiato a mo’ di sipario tagliafuoco) che nel primo Rinascimento vede il periodo di sua massima salute e ricchezza economica, politica, coloniale, culturale.
Questa ambientazione, “iper-veneziana”, è coadiuvata da una scenografia mobile fatta di moltissimi pannelli scorrevoli, in verticale e orizzontale, che si aprono, si chiudono, scendono e salgono delimitando e cambiando di volta in volta lo spazio scenico, come in uno di quei teatrini di carta-giocattolo sui quali si possono sostituire, facendoli scorrere, le scenografie e i fondali; un riferimento molto asciutto e moderno al barocchismo del teatro veneziano, reso possibile grazie alle complesse e stratificate proiezioni di Ineta Sipunova che giocano sulle sovrapposizioni, proiettando, sovrapponendo, retroproiettando fondali e immagini sempre diversi, attingendo per lo più dalle iconoclaste opere rinascimentali (Carpaccio, Gentile, i fratelli Bellini), ma anche da alcune vedute di Canaletto che svolgono più una funzione da cartolina.
Su questa falsariga, le scelte registiche più felici sono le ricreazione dei vari scenari del fondale di turno, “I due Foscari” di Francesco Hayez o “Cristo morto adorato dai Dogi”, con gli interpreti intenti ad inscenare una sorta di presepe vivente composto in armonia col quadro in questione, in un gioco di richiami abbastanza palese eppure sottile, mai sfrontato né scontato.
Si aggiungono altresì i motivi damascati delle sete, che diventano pattern optical ripetuti come carta da tappezzeria, così come la trama fisica delle pergamene proiettate, o ancora la ruvida pietra delle facciate dei palazzi: l’occhio diventa un testimone sensoriale della trama tattile delle immagini proiettate, la luce dei proiettori livella tutta la scena trattando nello stesso modo i corpi degli interpreti e i props, come se si sfogliassero le gigantesche pagine di un libro antico, disegno dopo disegno, quadro dopo quadro.
La scelta estetica sembra voler virare verso una colorazione monocorde, il grigio dei pannelli-fondali, la luce costantemente ambrata, i costumi che vanno dall’écru al bordeaux, con pochissimi tocchi di rosso acceso e poche punte di bianco scintillante; la palette a disposizione è limitata ma coerente, una tavolozza calda da paesaggio crepuscolare su uno sfondo freddo, grigio come la pietra e grigio come la morte: come nell’apertura del secondo atto, che da libretto vedrebbe Jacopo nelle prigioni di stato, in preda agli incubi, ma che il regista sceglie di calare in un ambiente onirico, una sorta di cimitero dove non vi sono lapidi ma tante statue di leoni di pietra in fattezze e pose diverse, come i gargoyles della cattedrale di Notre Dame.
Attraverso la moltiplicazione dell’immagine del leone di San Marco, simbolo per eccellenza di Venezia, Hermanis ricrea un momento di commosso surrealismo – le statue sono mobili, scivolano sul pavimento quasi a creare una danza delle statue – ma anche di romanticismo puro – prima nel duetto con la moglie Lucrezia, poi nel bellissimo e applauditissimo terzetto Jacopo-Lucrezia-Doge “Nel tuo paterno amplesso”, che racchiude l’essenza più profonda dell’opera: una tragedia familiare, un dramma a tre, in cui la dimensione intimistica e disperata della famiglia privata stride aspramente con la ribalta pubblica e politica della famiglia dogale, vittima sia del giogo del potere che del fato spietato.
Pregevole l’orchestrazione attenta e partecipe di Renato Palumbo, maestro concertatore di nome e di fatto, che leva in alto la bacchetta sul podio e dirige l’orchestra del Carlo Felice con grande partecipazione fisica, creando egli stesso una coreografia affascinante e veramente danzata, con il suo corpo scattante quasi a generare l’opera in toto, come in un atto sciamanico e creativo sulla cupa, a tratti spaventosa, composizione di Verdi.
Anche il primo cast risulta apprezzabile, sebbene la star della serata sia di gran lunga l’applauditissimo baritono Franco Vassallo nei panni del vecchio Foscari, impeccabile nel canto, una voce sicuramente potente e avvolgente ma anche e soprattutto un attore giusto, perfetto nel ruolo verdiano, al crocevia tra un vecchio leone (non più) ruggente e un anziano padre rassegnato al destino e poi alla morte. Drammatico, tragico, stoico, monumentale, memorabile.
Altro personaggio felicemente realizzato è il cattivo Jacopo Loredano di Antonio Di Matteo, perfetto nel ruolo, scurissimo nella voce e nell’aspetto, un antagonista talmente caratterizzato da diventare un villain per l’azzeccata aderenza di corpo, voce e interpretazione dell’attore al personaggio.
Fanno un po’ storcere il naso, molto più oggi che nel 2016, le coreografie ma soprattutto il corpo di ballo: se allora, infatti, erano pensate per gli allievi – maschi – della scuola di ballo della Scala, nella ripresa odierna le danze sono affidate ai giovani danzatori e danzatrici in abiti maschili del percorso Fondazione Formazione Danza e Spettacolo “For Dance” guidato da Irina Kashkova. Si passi pure sopra alla evidentemente giovane (in qualche caso giovanissima) età dei ballerini e delle ballerine e alla loro acerbità, ma il fatto di proporre un gruppo di ragazzi misto a ragazze e ragazzine en travesti, in ruoli presumibilmente maschili, fa scadere la qualità generale dello spettacolo, conferendogli un sapore di inadeguata “amatorialità”. Purtroppo, nel balletto, la “piaga” del travestitismo femminile (ballerine che fanno i ballerini) è stata una pratica necessaria – soprattutto in Italia – fino agli anni ‘50, per andare a coprire i ruoli maschili allorché non vi erano abbastanza interpreti uomini. Ne “I due Foscari” i ballerini interpretano in più riprese il Consiglio dei Dieci e un gruppo di fanciulli con calzamaglia e mantello, in vesti da uomo. Ora, poiché non sembra che né l’allestimento né la struttura ospite si siano voluti prodigare in un atto di gender fluidity né di gender blind casting, la scelta del corpo di ballo misto risulta stonata e inadeguata rispetto al confezionamento elegante e impeccabile dell’allestimento. Peccato!
Della regia di Hermanis, che certamente può apparire un po’ ruffiana e forse poco coraggiosa, si loda indubbiamente il continuo gioco di richiami alla ricchezza e allo splendore della Venezia del mito, che si offre allo sguardo secondo percorsi non sempre scontati, con tanti elementi iconografici ingranditi, ingigantiti, moltiplicati, ripetuti e misurati, fino a formare un universo quasi ipnotico, allo stesso tempo intimistico e pubblico, che in alcuni momenti si imprime fermo sulla scena e in altri scivola via, lento e silenzioso, come fa la gondola sul Canal Grande.
I DUE FOSCARI
Tragedia lirica in tre atti
Musica di Giuseppe Verdi
Libretto di Francesco Maria Piave, da Byron
Francesco Foscari
Franco Vassallo
Leon Kim (1, 7)
Jacopo Foscari
Fabio Sartori
Giuseppe Gipali (1, 7)
Lucrezia Contarini
Angela Meade
Marigona Qerkezi (1, 7)
Jacopo Loredano
Antonio Di Matteo
Barbarigo
Saverio Fiore
Pisana
Marta Calcaterra
Fante
Alberto Angeleri
Antonio Mannarino (1, 7)
Servo del Doge
Filippo Balestra
Matteo Armanino (1, 7)
Maestro concertatore e direttore d’orchestra Renato Palumbo
Regia e scene Alvis Hermanis
Costumi Kristìne Jurjàne
Coreografie Alla Sigalova
Luci Gleb Filshtinsky
Video Ineta Sipunova
Allestimento Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova
Orchestra, Coro e Tecnici dell’Opera Carlo Felice Genova
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti
Balletto Fondazione Formazione Danza e Spettacolo “For Dance” ETS
Direttore allestimenti scenici Luciano Novelli
Direttore musicale di palcoscenico Paloma Brito
Maestri di sala Sirio Restani, Antonella Poli
Maestri di palcoscenico Andrea Gastaldo, Anna Maria Pascarella
altro Maestro del Coro Patrizia Priarone
Maestro alle luci Caterina Galiotto
Maestro ai sopratitoli Simone Giusto
Responsabile archivio musicale Simone Brizio
Direttore di scena Alessandro Pastorino
Vice Direttore di scena Sumireko Inu
Responsabile movimentazione consolle Andrea Musenich
Caporeparto macchinisti Gianni Cois
Caporeparto elettricisti Giuseppe Carbone
Caporeparto attrezzisti Tiziano Baradel
Caporeparto audio/video Walter Ivaldi
Caporeparto sartoria, calzoleria, trucco e parrucche Elena Pirino
Assistente alla regia Luca Baracchini
Ripresa coreografie Irina Kashkova
Assistente ai costumi Alexandra Nikolaeva
Assistente lighting designer Gianni Bertoli
Coordinatore trucco e parrucco Raul Ivaldi
Scene, costumi e attrezzeria Fondazione Teatro Carlo Felice
Calzature C.T.C. Pedrazzoli
Parrucche Mario Audello
Sopratitoli Prescott Studio
Durata: 2h e 25’ (incluso intervallo)
Applausi del pubblico: 6’
Visto a Genova, Teatro Carlo Felice, il 31 marzo 2023