Non è più il recinto autoreferenziale e un po’ segregante degli esordi. Giunta alla quarta edizione, Illecite/visioni 2015, la rassegna di teatro omosessuale promossa dal Teatro Filodrammatici, è apparsa più matura, orientata a un pubblico molteplice, più votata all’arte come universale.
Diretta da Mario Cervio Gualersi, la rassegna milanese Lgbt sembra puntare a un teatro policromo, senza bandiere né barriere. Non a caso alcuni spettacoli della scorsa edizione sono entrati nei cartelloni generalisti di altre sale.
Illecite/visioni offre un contributo al riconoscimento dell’identità omosessuale, alla piena dignità di amori una volta definiti “diversi”. L’arte e le emozioni, la poesia e il linguaggio del corpo non hanno identità di genere. Scuotono le coscienze più delle battaglie politiche e delle rivendicazioni sbandierate.
Il format rimane invariato. Spazio alla drammaturgia femminile e al teatro meridionale. Spazio anche al soggetto della transessualità. Chiusura letteraria, dedicata a Giuseppe Patroni Griffi. Uno stock di eventi collaterali: documentari, filmati, presentazioni di libri, intermezzi cabaret, incontri con psicologi, teologi e studiosi. Momenti social, con dj set e aperitivi.
Esordio al femminile. Annagaia Marchioro, amabile madrina, ironizza sulle adozioni omosessuali. Sarà fuori moda il detto “di mamma ce n’è una sola”. Ma immaginate che ansia averne due?
Acerbetto lo spettacolo “Assolutamente Deliziose” di Claire Dowie, regia di Emiliano Russo, con Flaminia Cuzzoli e Ottavia Orticello. A e B, cugine-amanti, si ritrovano insieme dopo una lunga separazione forzata. A è mascolina, energica e ribelle; B insicura, pavida, ripiegata sugli stereotipi. Emergono rimpianti, gelosie, rancori da sopire. Si scava nel passato, alle radici di rapporti filiali e parentali disfunzionali. Si ripercorrono vocazioni, scelte, paure che inchiodano le protagoniste a uno status in bilico tra etero e omosessualità. Belle scene di teatro visuale, ma anche qualche gioco drammaturgico esasperato. Il sovraccarico recitativo e la ridondanza dei temi rendono la pièce a tratti innaturale.
Doppia serata per i siciliani di Vucciria Teatro. “Io, mai niente con nessuno avevo fatto” è l’intreccio di tre esistenze nella penombra. Coni di luce illuminano corpi discinti. Anime nude nella notte sfogano amore, rabbia e malattia. La morte fa l’occhiolino.
Atmosfere decadenti, che ritroviamo anche nel secondo spettacolo, “Battuage”.
La drammaturgia e regia di Joele Anastasi (in scena con Enrico Sortino e Federica Carruba Toscano) snocciola monologhi ipercinetici e un po’ urlati, che si sfiorano ma non diventano dialogo. Corpi sul punto d’incontrarsi rimangono irrelati. Un’opera barocca, nei temi e nei modi espressivi. Un po’ la Sicilia che ti aspetti. Un po’ i personaggi che ti aspetti, vagamente macchiettistici. Retrò che sa di maniera. Rimane la sensazione di una compagnia animata da un demone, di un talento selvatico destinato a maturare.
C’è un’ironia boccaccesca in “Romanina”, di Luca Scarlini e Anna Meacci, quest’ultima diretta sul palco da Giovanni Guerrieri.
In una scenografia di scarpe, pellicce e lustrini, prende forma la vita di Romina Cecconi. La “donna pipistrello” che scandalizzò Firenze, fu tra le prime transessuali italiane che cambiarono sesso.
Il monologo è intriso di humour e tenerezza, a tratti ingenuo, mai volgare. È una carrellata di quarant’anni di storia patria, dal dopoguerra in poi. Emerge un Paese benpensante e sorridente, disposto (coi suoi tempi) a ragionare su se stesso, a scendere a patti con ciò che di anomalo e sinistro rappresentava una persona dall’identità più fumosa delle sigarette accese sul palco. Brava la Meacci a dar fiato a un personaggio complesso, racchiuso tra luci della ribalta e atmosfere vintage, animato da ribellione e caparbietà.
A sigillare la rassegna, la poesia soft di Benedetto Sicca che firma la regia di “La morte della bellezza”, testo appassionato di Giuseppe Patroni Griffi. Una delicata storia d’amore ambientata a Napoli sotto le bombe della Seconda Guerra Mondiale, protagonisti un uomo maturo (lo stesso Sicca) e un giovane inesperto e ipocondriaco (Mauro Lamantia).
Sogni e distruzione. La Napoli ridente e chiassosa da cartolina qui cede a una città sussurrata, ferita e malinconica. Metateatro iniziale: due uomini in biancheria intima discutono del testo da mettere in scena. Bastano una pellicola antica senza immagini proiettata sullo sfondo e della polvere di borotalco a ricostruire un’epoca e le sue atmosfere. Tre massicci gradoni creano spazi profondi su cui si alternano i protagonisti.
La soluzione scenica di Luigi Ferrigno crea un ventaglio di possibilità tanto semplici quanto efficaci. Il pavimento si trasforma in alcova. I barlumi di luce disegnati da Marco Giusti creano spazi per scrutarsi dentro.
L’agitazione e l’ingenuità dei primi incontri. La paura di mettersi a nudo. Frenesia e pazienza, fughe e ritorni. L’amore s’impone. Gli occhi si riconoscono come impronte digitali. Due innamorati galleggiano in una coreografia di fiori.
Il finale lambiccato, ma di straordinaria levità, trasfonde un alone delicato a un festival che quest’anno ha puntato più ai moti dell’anima che alle pulsioni del corpo.