Ormai da dieci anni – era il 2009 quando tutto iniziò – si svolge In-Box, manifestazione organizzata a Siena dalla compagnia Straligut, una sorta di festival di teatro contemporaneo diviso in due sezioni, una dedicata al teatro ragazzi (In-Box Verde) e una al teatro di ricerca per adulti (Blu). La particolarità è il coinvolgimento di decine di strutture in Italia che, attraverso un bando, scelgono di ospitare, dopo numerose fasi, una serie di spettacoli di compagnie non sovvenzionate: le compagnie selezionate durante In-Box dal Vivo, infatti, si “dividono” le repliche in palio, scelte dai soggetti promotori.
In questo modo il progetto intende agire concretamente nell’ambito della circuitazione degli spettacoli, con un’azione multipla di talent scouting, di sostegno alla dimensione professionale dello spettacolo dal vivo ma anche di audience development.
Siamo stati a Siena dal 23 al 25 maggio a seguire In-Box Blu che quest’anno, fra i sei finalisti, ha distribuito 52 repliche degli spettacoli in competizione. Gli spettacoli finalisti sono stati “Aplod” della compagnia Fartagnan (che si è aggiudicata tre repliche), “Maze” di UnterWasser (13), “Così lontano, così Ticino” di Mumble Teatro e Città Murata (4), “Farsi fuori” di Psicopompo Teatro (9), “46 Tentativi di lettera a mio figlio” di Claudio Morici (2), infine “La classe” di Fabiana Iacozilli /CrAn Pi, spettacolo vincitore che ha collezionato 20 repliche.
Le sei messe in scena, assai diverse tra loro, ci hanno fatto assaporare, nel bene e nel male, la grande ricchezza, seppur non sempre incisiva e spesso sommersa, del teatro italiano, finalmente al di fuori del teatro paludato e ripetitivo dei soliti noti. Ed è questa, per noi, la missione principale di In-box.
Iniziamo da “Aplod”, divertissement dal sapore distopico-fantascientifico, in cui i giovanissimi componenti della compagnia Fartagnan immaginano un futuro non troppo lontano, in cui il lavoro viene assegnato tramite la valutazione delle capacità lavorative, attraverso un punteggio, e dove il governo ha dichiarato illegale condividere in internet materiale video. Ma la proibizione è abilmente aggirata da siti pirata. Il più ricercato di tutti è Aplod, in cui il videomaker di turno può guadagnare un sacco di soldi caricando i video più disparati.
Jack e Save, che occupano l’appartamento del loro amico Mitch, decidono di organizzare un’associazione fuori dalle regole per produrre video, facendo realmente un mucchio di quattrini, qui denominati Merkel, ma il piano andrà in fumo e certo non vi diremo di più, per non rovinarvi il finale.
Uno spettacolo, “Aplod”, che contiene tutta la vitalità e l’entusiasmo proficuo e irriverente di giovanissimi artisti usciti da poco dalla milanese Paolo Grassi; al contempo possiede tutte le fragilità e le ricchezze di un immaginario che si rifà alle serie televisive e al cinema di genere, che ne stempera per altro i possibili rimandi didascalici, a volte dimenticando, al di là del gioco, le profondità possibili più recondite del teatro.
Al di là di questo, “Aplod” risulta una performance godibile e ben congeniata, accessibile ad ogni tipologia di pubblico.
Di tutt’altro genere “Maze” (labirinto) del collettivo femminile UnterWasser, una live performance in cui Valeria Bianchi, Aurora Buzzetti e Giulia De Canio, utilizzano sul palco le più disparate fonti luminose per creare, su un grande schermo, l’illusione di assistere ad una pellicola cinematografica. Ecco nascere in modo semplice e proficuo campi lunghi, dettagli, carrellate, soggettive che sono creati grazie al movimento di luci, oggetti dove anche i corpi delle performer diventano significanti.
Non ci sono parole ad accompagnare le immagini, ma una colonna sonora originale realizzata da Posho.
L’occhio dello spettatore percepisce la realtà attraverso un altro occhio, specchio di un ulteriore mondo su cui agiscono gli occhi degli altri: un mondo che contiene i frammenti lirici di una vita che partecipa alle gioie e ai dolori dell’essere umano. Il tutto in modo anche squisitamente intellettuale, con citazioni poetiche ispirate a Mariangela Gualtieri e Wisława Szymborska, e figurative che rimandano a Steinberg, Tresoldi, Modigliani, Maria Lai e soprattutto a Alexander Calder.
Uno spettacolo raffinato che ci ha intrigato soprattutto quando le immagini lasciano la reinvenzione della realtà per immedesimarsi in una dimensione onirica.
I lombardi Città Murata e Mumble Teatro (che hanno vinto il premio assegnato da una giuria di giovani spettatori) in “Così lontano, Così Ticino” affrontando “il fenomeno dei Versteckte Kinder, i bambini italiani clandestini in Svizzera, sepolti vivi nei loro bugigattoli alle periferie delle città industriali”; ci parlano al contempo del razzismo di oggi, dell’invisibilità di un ceto sociale che fatica a vivere, cercando una impossibile rivincita.
Davide Marranchelli e Stefano Panzeri conducono con abilità il tragicomico gioco che li porterà a tentare di rapire Mina: la drammaturgia è ben costruita e interagisce con le parole delle canzoni della Tigre di Cremona, evitando la facile retorica.
A nostro avviso andrebbe meglio caratterizzato il contesto storico sociale in cui le azioni si svolgono per comprenderne meglio i significati più profondi.
Meno convincenti ci sono parsi “Farsi fuori” di Psicopompo Teatro e “46 Tentativi di lettera a mio figlio” di Claudio Morici, che in parallelo si interrogano rispettivamente su che cosa possa significare essere madre e padre, oggi.
Al centro di “Farsi fuori” c’è una donna con tutti i dubbi inerenti al diventare madre, alla quale appare l’Arcangelo Gabriele in persona, che la va a trovare per fare anche a lei “l’Annunciazione”.
Se lo spunto è assai divertente e ben condotto dai due interpreti, Luisa Merloni e Marco Quaglia, il testo ci appare però superficiale, a volte autoreferenziale, atto più a far ridere che ad approfondire in modo profondo il tema.
Più interessante “46 Tentativi di lettera a mio figlio” in cui Carlo Morici, tra il monologo, il reading letterario e il radio dramma, tenta – attraverso 46 brevi lettere – di spiegare a suo figlio il senso della vita. Un padre di cui si intuiscono anche qui le paure (l’inadeguatezza al proprio ruolo per un figlio che sta maturando) ma soprattutto l’amore. Tuttavia anche qui crediamo si potesse osare di più, andando ad indagare maggiormente le sfumature della paternità.
Entrambi gli spettacoli ci dimostrano come possa essere estremamente difficile, attraverso il teatro, far ridere e nel medesimo tempo entrare con leggerezza eppure in modo incisivo negli argomenti trattati.
“La Classe” di Fabiana Iacozzilli ci è sembrato, nell’ambito di In- box, lo spettacolo senz’altro più interessante e inventivo.
A partire dai ricordi sulla scuola elementare frequentata dalla regista, per mezzo del teatro di figura, che si manifesta attraverso le marionette da tavolo di Fiammetta Mandich, mosse a vista dagli animatori che vivono in assoluta empatia con loro aiutandole nelle piccole, grandi azioni, viene ricostruita una vera e propria classe, su cui aleggia la terribile suor Lidia, una creatura nera dalle forme improbabili.
Sebbene siano passati trent’anni, il ricordo di quella figura che terrorizzava i ragazzi con ingiurie e maltrattamenti è ancora ben presente nella memoria dei vecchi compagni di classe.
Per tutto il teatro si riverberano vividi i ricordi dei compagni raccolti dalla Iacozzilli in audio-interviste che la dipingono come un essere mostruoso tra fiaba e realtà. Le figure di quella classe, così vicine anche nella nostra memoria a quelle di Tadeusz Kantor, poste su grandi tavoli che si spostano qua e là sul palco, creano ogni volta effetti di visione sempre diversi e l’audio di Hubert Westkemper, mescolato ai rumori dal vivo, contribuiscono in modo profondo ad immergerci nell’incubo infantile della regista.
E’ in questo modo che sorge la grande domanda che sovrasta il tutto: “Cosa ogni essere umano è in grado di diventare, a partire dal proprio dolore?”. Quella terribile esperienza potrà forse fortificare, ma quello che più sentiamo nello spettacolo è la forte pietà per tutti i componenti della piccola classe indifesa, che la stessa Iacozzilli, in un certo momento, si sente in dovere di coprire con indumenti per non lasciarla illividire dal freddo. Uno spettacolo, potremmo dire, unico nel panorama italiano, che lo collega alla sperimentazione da sempre in atto nel teatro di figura europeo.