La produzione del Teatro Bellini di Napoli porta in scena Daniele Russo e Sergio Del Prete
Estremamente toccante questa interpretazione de “Le cinque rose di Jennifer” prodotto da Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini con la regia di Gabriele Russo, che abbiamo avuto occasione di vedere presso la Sala Thierry Salmon dell’Arena del Sole di Bologna.
Il copione prescelto è la primissima versione scritta nel 1980 da Annibale Ruccello, drammaturgo, regista ed attore napoletano: una delle voci più sensibili e profonde del teatro italiano del secondo Novecento, di cui rimpiangiamo vivamente tutti quei testi mai realizzati, e che certamente sarebbero stati straordinari se solo Ruccello non fosse morto prematuramente ad appena trent’anni.
L’acume di Ruccello emerge già da questo primo testo teatrale: un atto unico ben congegnato, in un susseguirsi di brevi scene in cui si reiterano ogni volta le stesse dinamiche che, stratificandosi l’una sull’altra, si vanno amplificando, generando una forte tensione drammaturgica.
Lo spettacolo ha inizio con una luce fioca che illumina progressivamente due uomini, vestiti di nero. Vediamo i loro volti di profilo, poi la luce si espande, lasciandoci entrare lentamente in un appartamento barocco e decadente: la casa di Jennifer, un trans dal forte accento napoletano, interpretato con passionalità da Daniele Russo.
Mentre Jennifer si cambia d’abiti, inizia l’intrattenimento con la sua routine quotidiana, fatta di programmi radiofonici, telefonate e canzoni a cui storpia le parole per divertimento. C’è parecchio disordine in giro, oggetti sparsi qua e là, per terra e sul mobilio. Secondo le indicazioni dell’autore l’ambientazione prevede un tavolo da pranzo, una toilette e un divanetto alquanto eccentrico, che Russo colloca all’interno di un tappeto circolare di terra nera, con detriti e schegge di vetro che richiamano il terreno vulcanico, scuro e polveroso di una discarica di rifiuti.
Jennifer tenta in maniera caotica di fare ordine, ma il suo mondo emozionale, così intenso ed appassionato, prende sempre il sopravvento, e non fa altro che blaterare: da sola, al telefono, alla radio, con una vicina di casa, sempre in preda ad una instancabile logorrea, un impasto magnetico di italiano, dialetto, canzoni… Tutto questo trambusto è generato dall’attesa di un uomo, la sua nuova fiamma, che però è sparito da mesi. Così Jennifer rimane bloccata in casa, costretta a ripetere compulsivamente tutta una serie di preparativi rituali nell’eventualità di una chiamata o di una visita a sorpresa da parte sua.
Il gioco dell’attesa si fa sempre più esilarante, ma anche sfiancante, a causa delle ripetute interferenze che fanno suonare il telefono di continuo. Ogni volta che squilla si ravviva la speranza che possa essere lui, ma sistematicamente la chiamata è destinata a qualcun altro, per colpa di un difetto alle linee telefoniche di tutto il quartiere (una sorta di ghetto di nuova realizzazione, abitato unicamente da trans).
Per ingannare il tempo Jennifer ascolta Radio Cuore Libero, una emittente locale, che oltre ad allietarla con le sue canzoni preferite (Patty Bravo, Mina, Romina Power, Vanoni, Gabriella Ferri…) annuncia la terribile notizia di alcuni omicidi efferati avvenuti nel quartiere. I casi di omicidio aumentano di giorno in giorno, di ora in ora, e la radio con i suoi annunci sensazionalistici innesca un clima generale di paura e di tensione, rimarcato dagli effetti di luce a intermittenza che fuoriescono dell’apparato radiofonico.
Gli interventi della radio, collocata da Russo in uno spazio a sé stante tra scena e platea, svolge un ruolo particolarmente attivo: scandisce il ritmo delle scene, segnala il passare del tempo ed amplifica per contrasto l’atmosfera cupa dello spettacolo con canzoni allegre e frizzanti.
Col dispiegarsi della trama, il testo confonde volutamente l’immaginario del pubblico che potrebbe domandarsi chi sia l’assassino, ma poi le diverse ipotesi vengono soppiantate dal dubbio, ancor più inquietante, che si possa trattare di una serie di suicidi: sarebbero dunque gli stessi trans a togliersi la vita da soli, a causa di una sorta di psicosi collettiva che si è venuta a creare all’interno del quartiere?
L’interpretazione carismatica di Daniele Russo risucchia il pubblico nell’andamento vorticoso del testo, che come una morsa si fa sempre più stringente. La sua Jennifer ha un incredibile magnetismo autodistruttivo, i suoi gesti e movenze sprigionano un’affascinante potenza attrattiva che cercano di mascherare la terribile solitudine ed angoscia esistenziale che prova nella quotidianità.
Il ruolo è certamente una grande prova d’attore, che Russo supera a pieni voti, riuscendo ad incarnare entrambi i lati di Jennifer con spessore e credibilità. Alla fine, quando Jennifer si lascerà cadere in quel buco nero della psicosi collettiva, anche il pubblico ha la sensazione di esserne fagocitato, in preda ad un forte coinvolgimento emotivo.
Nel rispetto del testo originale, lo spettacolo è un “quasi” monologo con l’apparizione di un secondo personaggio solo a metà dell’opera: Anna, un altro trans del vicinato che vive da solo con la sua gatta. Anche questo personaggio rimane intrappolato nel meccanismo della psicosi collettiva, oramai inarrestabile come un tritarifiuti che riduce tutto in poltiglia.
Ad interpretarlo troviamo Sergio Del Prete, che è già in scena dall’inizio dello spettacolo per rappresentare anche il ruolo di una terza figura. Questa presenza dai contorni evanescenti in realtà non esiste nel testo originale: è frutto dell’invenzione della regia e si inserisce nello spettacolo senza l’aggiunta di battute, ma soprattutto senza alterare i delicati equilibri della drammaturgia. La vediamo aggirarsi attorno alla scena con fare guardingo, ingobbita, destando una certa curiosità nel pubblico che si ritrova ad osservarla per decifrarne la vera natura. È una sorta di doppio di Jennifer o di suo alter ego, che la guarda da fuori, che funge da specchio, replicando le sue azioni in simultanea o facendo da eco alla sua interiorità.
È interessante come Russo riesca a sovrascrivere, senza toccare il testo, giocando con l’ambiguità della trama che asseconda ed amplifica, andando a inserire delle semplici partiture fisiche. Ciò avviene, ad esempio, quando Jennifer si astrae dall’azione principale, uscendo dal cerchio della scena per avvicinarsi alla platea. In quei momenti le luci si abbassano e Jennifer guarda il pubblico dritto negli occhi per condividere qualcosa unicamente con lui, come in un a parte, però senza battute. I suoi movimenti rallentano, si dilatano, come se li stessimo osservando da sotto una lente d’ingrandimento. Attraverso queste brevi sequenze Russo risucchia lo spettacolo in una dimensione altra, potremmo dire onirica, creando una peculiare connessione tra l’inconscio di Jennifer e quello degli spettatori. Non a caso il turbamento che si prova a fine spettacolo è profondo, come quando ci si risveglia da un incubo che ti attanaglia e che ti lascia gli strascichi per ore.
Annibale Ruccello ha la potenza di farci volgere lo sguardo su dei pezzi di realtà che normalmente considereremmo a noi estranei, ma che a ben vedere ci riguardano molto di più di quel che siamo abituati a pensare. Per paura, per ignoranza, per abitudine, per comodità, per educazione, siamo convinti che la vita di un trans non ci riguardi (a meno che uno non lo sia). Ma uscendo da questo spettacolo, così turbati, emozionati, euforici, su di giri, entusiasti (queste le diverse reazioni da parte del pubblico) ci si rende conto che lo spettacolo parla di tutti noi, della solitudine insita in ogni diversità, identità, peculiarità, marginalità. In ognuno di noi c’è sempre qualcosa di sotterraneo, di nascosto, di fragile, di depresso… Jennifer con i suoi enormi sorrisi, con i suoi cambi d’abiti, con il suo trucco pesante e le parrucche spettinate, rappresenta solo in maniera un po’ più evidente e riconoscibile quello strato protettivo di finzione che si indossa per nascondere qualsiasi aspetto o pulsione socialmente non ancora accettato.
Le cinque rose di Jennifer
di Annibale Ruccello
con Daniele Russo e Sergio Del Prete
scene Lucia Imperato
costumi Chiara Aversano
disegno luci Salvatore Palladino
progetto sonoro Alessio Foglia
regia Gabriele Russo
produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
durata: 1h 20′
applausi del pubblico: 2′
Visto a Bologna, Arena del Sole, il 9 marzo 2023
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di Annibale Ruccello
Storia e Letteratura, 2023
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