Viviamo anni in cui il teatro è ritenuto da molti l’arte che più di tutte può difendere i valori messi in crisi dalla nostra modernità spietata: al pulviscolo individualista ed eternamente riproducibile dei social network, il teatro oppone la sua irripetibilità; al monadismo dei monitor, la necessità banale di sedersi accanto ad altre persone per vedere lo spettacolo, esponendo le proprie reazioni emotive all’alchimia con quelle altrui. E c’è poco da dire: il rito sociale che tanto ci appassiona, nella società di oggi, ha davvero una potenzialità politica intrinseca.
Può sembrare strano, allora, mettersi a parlare di Cue Press, casa editrice nata nel 2012, il cui catalogo è interamente dedicato alle arti dello spettacolo: non è la lettura individuale, a tavolino o in poltrona, proprio la negazione dell’invito all’incontro che il teatro può, criticamente, enfatizzare?
In realtà il fondatore di Cue Press Mattia Visani, attore e regista cresciuto alla scuola del Teatro Stabile di Torino, prendendo idealmente il testimone della Ubulibri di Franco Quadri, ha saputo innestare nel panorama teatrale italiano un’idea agile e innovativa di editoria, grazie alla quale vengono tutelate esigenze importanti, che la concentrazione sulla dimensione performativa e produttiva del teatro avrebbe rischiato di eclissare.
Puntando con decisione sulla distribuzione digitale e sulla stampa ‘on demand’, infatti, Cue può permettersi di proporre un catalogo ricco e in costante aggiornamento. Oltre all’approfondimento della sezione saggistica (con nomi importanti come Mirella Schino e De Marinis), e oltre alla pubblicazione per così dire “in diretta” di alcuni testi teatrali messi in scena da compagnie importanti, al fine di permettere agli spettatori interessati un confronto immediato col testo originale dello spettacolo in cartellone (così è successo con «Sweet Home Europa» di Davide Carnevali e «Visita al padre» Roland Schimmelpfenning), il lavoro di Visani è importante perché dà la possibilità a drammaturghi affermatisi anche molto di recente di lasciare una testimonianza scritta della loro opera.
“Testimonianza scritta” non significa soltanto rendere accessibile un testo teatrale a chi abita in zone periferiche, o a chi si avvicina ad un titolo con curiosità da lettore comune e non da addetto ai lavori, ma soprattutto facilitare l’incontro di studiosi di altre discipline umanistiche con la drammaturgia contemporanea: perché, se ormai è proverbiale che un ingegnere aerospaziale e un ingegnere meccanico parlano due lingue diverse, non bisogna pensare che le cose andrebbero molto meglio se a dialogare fossero uno storico della lingua e uno storico del teatro.
Queste riflessioni mi sono suggerite dalla lettura di “Familiae”, la raccolta di tre testi di Tindaro Granata licenziata da Cue Press qualche mese fa. L’attore e regista siciliano ha avuto importanti riconoscimenti a partire dal successo di “Antropolaroid”: oltre a questo, in “Familiae” sono raccolti i più recenti “Invidiatemi come io ho invidiato voi”, sofferto atto unico sul tema della pedofilia, e “Geppetto e Geppetto”, al cui centro c’è la questione dell’omogenitorialità. La Prima di “Geppetto e Geppetto” c’è stata il 17 settembre 2015, a testimoniare la rapidità con cui le messe in scena più interessanti possono trovare dimensione editoriale nelle scelte di Visani.
Proprio il testo di “Antropolaroid”, in cui Tindaro Granata ricorre abbondantemente al siciliano (la lingua intima, «quella della mia anima, che si parla nel mio mondo», la descrisse in un’intervista), mostra quanto possa essere prezioso il lavoro dell’editoria teatrale nel più vasto panorama umanistico.
Per gli occhi di un linguista, ad esempio, “Antropolaroid” è uno spaccato interessante sull’attuale funzionalità drammaturgica del dialetto e dell’italiano regionale, a volte identificati in modo molto riduttivo con la categoria-cloaca del teatro di narrazione, come se oggi, a teatro, le lingue locali fossero soltanto collegate alla ricerca o alla testimonianza di un’identità storica o territoriale, e come se l’espressione dialettale non fosse una risorsa fondamentale anche per artisti visionari come Emma Dante.
In “Antropolaroid”, invece, il dialetto ha un legame sussultorio con l’italiano: i bisnonni e i nonni di Tindaro raccontano la loro storia in monologhi o dialoghi brevi, rastremati, in cui il dialetto non esprime inferiorità sociale (parla siciliano anche il medico del paese) né evoluzione generazionale (già Nonna Maria parla esclusivamente in italiano, come il narratore). Emerge, piuttosto, un criterio prosodico e fonico: il dialetto viene scelto per l’espressione dei momenti più drammatici, immedesimativi; mentre l’italiano è il vettore di uno sguardo apparentemente più ampio, ma in realtà bieco, animato da un’istintività soltanto dissimulata.
È molto interessante, poi, seguire l’impegno con cui un giovane come Tindaro Granata cerchi di dare consistenza grafica alla sua lingua dell’anima: ci sono stralci pienamente siciliani («Iò l’haiu i pinzèri, haiu cinque figghi e uno staci arrivannu»), forme tipicamente popolari come gli aggettivi iterativi («E comu si mori, di corpu o chianu chianu?»), e altri brani in cui invece italiano e siciliano si alternano senza soluzione di continuità («Vi servi maestranza di campagna? Sacciu ‘nzitari, innestare, rimunnari, potare, ah, ho capito»), dove non è facile capire quanto ci sia di difficoltà dell’autore nel ricostruire una certa forma del suo dialetto, e quanto invece di quella che Pasolini chiamava “acculturazione”.
Sono soltanto brevi esempi, ma mostrano una delle tante vie secondo cui può essere percorso il materiale che Cue Press mette a disposizione: con un’impostazione editoriale moderna non soltanto gli investimenti sono più tollerabili e i tempi più brevi, ma si può aiutare il teatro contemporaneo a diventare un campo d’indagine per gli studiosi (o semplicemente i curiosi) di ogni tipo.