Tra gli ospiti del festival Venere a Teatro Pierandrea Rosato, il Collettivo Munerude e Baptiste Cazaux
Si è conclusa la prima parte di Venere in teatro, festival di danza che si svolge negli spazi non convenzionali di Forte Marghera, a Mestre (VE), grazie a Live Arts Cultures.
L’apertura affidata alla danza verticale di Vertical Waves Project, diretta da Marianna Andrigo, e al rito sonoro di Mariangela Gualtieri, ha collocato la rassegna all’insegna di una cifra poetica molto ampia e trasversale. E di fatti il prosieguo conferma la grande varietà di linguaggi e lo spessore dei percorsi formativi e autoriali che la direttrice artistica del festival, la stessa Marianna Andrigo, ci aveva anticipato.
In questa prima settimana, si sono alternati grandi maestri come Enzo Cosimi con “Coefore Rock&Roll” a protagonisti della danza emergente e ad alcuni giovani autori già selezionati dal Network Anticorpi XL, come Chiara Ameglio, Claudia Caldarano e Pierandrea Rosato.
Quest’ultimo e il Collettivo Munerude sono artisti associati e prodotti da Sosta Palmizi e ci hanno lasciato le suggestioni più vibranti.
Pierandrea Rosato, danzatore e coreografo di origini pugliesi con base a Venezia e una laurea in danza moderna presso la Folkwang University of the Art di Essen in Germania, è stato danzatore ospite per il Tanztheater Wuppertal. Nel 2021 ha avviato il suo percorso autoriale. Al festival ha presentato l’assolo “Infieri”, già selezionato dal network Anticorpi per la Vetrina della giovane danza d’autore 2023.
Buio. Un uomo entra in scena dal retro della platea vestito di nero, dando le spalle agli spettatori; attraversa l’intero spazio scenico vuoto, facendo risuonare i tacchi delle scarpe; arriva al fondale e apre la porta di sicurezza da cui si proietta una luce esterna.
Basta questo a farci sentire catapultati in un interno domestico, casa di famiglia o nido quotidiano, in cui si sviluppa giorno per giorno, tentativo dopo tentativo, la ricerca – tutta soggettiva, solitaria, introspettiva – della propria forma, collocazione, attitudine ad abitare il tempo e il mondo in cui siamo e diventiamo.
“Infieri” è diviso in due parti. Nella prima, svolta in totale silenzio, il danz’autore tiene posture molto verticali e segue percorsi rettilinei. Tuttavia alterna scatti a raccoglimenti, movimenti di presa e rilascio, una gestualità che sembra disegnare domande e risposte incerte, facendo scivolare nell’aria braccia nude come piume di luce, morbide e dolci. Proprio la ripetizione quasi rituale di alcuni gesti, che misurano profilo, arti, limiti, potenzialità, sembra avere a che fare con la definizione di sé. Evocativa e commovente la figura che Rosato crea facendo scorrere una mano all’ingiù dal basso del suo volto fino ai capelli e oltre, come se qualcuno lo stesse accarezzando, sollevando verso l’alto, richiamando ad una nuova consapevolezza.
La seconda parte lo vede privo di camicia e a piedi nudi, disteso ad incontrare gli sguardi col pubblico, mentre prende le mosse “Who knows where the time goes” di Nina Simone.
Da qui, dall’incontro con l’altro e la musica, il protagonista trova movimenti più fluidi, più rotondi, a contatto anche col pavimento. Il corpo si scopre in grado di ruotare a terra su una spalla, di fare salti, di prendersi il tempo di riposare, anche di cadere e rialzarsi. Compiuto il proprio rito di trasformazione, il danz’autore si avvia verso il fondale ed esce dalla porta, pronto per affrontare la vita e chiudere col passato.
«In un mondo di velocità, la coreografia racconta la politica dell’ascolto e della cura di sé e dell’altrə» recita la sinossi. Pur in uno sviluppo a differenti modulazioni, l’attenzione alla qualità del movimento, che rinvia alla lezione di Rudolf Laban, si traduce in un segno che mantiene una cifra costante di eleganza e poesia decisamente affascinante.
Il Collettivo Munerude si è costituito nel 2017 dall’unione di Francesca Antonino, Laura Chieffo e Ilaria Quaglia.
“Granito” è stato vincitore del bando PERMUTAZIONI 18/19 e nel 2020 del bando L’Italia dei Visionari (Kilowatt Festival), dove ha debuttato nel 2021. Come recita la sinossi, l’opera «nasce da un processo di ricerca sul disfacimento e la ricomposizione della materia», un processo di trasformazione che ci attraversa.
Una spiegazione molto scientifica venne rilasciata anche in un’intervista in occasione del Kilowatt Festival, e offre una chiave di lettura delle tre parti nettamente distinte di cui si compone la coreografia. Ma diciamo subito che questo impianto concettuale non è arrivato al pubblico più ampio, e che un’altra visione, parallela e condivisa da diversi spettatori, si è innestata forse in modo complementare a quella delle autrici.
La composizione complessiva, pur nella diversità di modi e ritmi interni, è puntualmente studiata e decisamente magnetica.
Il primo atto ha un segno decisamente più sottile, fragile e delicato. I tre corpi pressoché nudi che ci attendono in sala, avviluppati in un’unica massa indistinta, una volta sciolti, mantengono per tutto il pezzo una postura in quadrupedia e frontale al pubblico, tale per cui la figura antropomorfa si dissolve: la posizione a terra a quattro zampe, la testa reclinata, le lunghe chiome delle interpreti disposte a coprire il volto, ci traspongono in un regno primordiale. Secondo il Collettivo, questa parte indaga una dimensione microscopica, all’interno di una materia in disfacimento, dove gli elementi decadono, mutano, si trasformano. E’ più immediato leggervi qualcosa di primordiale, un piccolo branco forse di ominidi, ancora distanti dall’agone delle convenzioni sociali, che cercano di misurare relazioni interne, rapporti di forza, azioni con cui modulare l’affetto e la convivenza. La fragilità delle vertebre, la magrezza delle schiene, la purezza delle pelli contrastano con movimenti talora irruenti, talora circospetti, con prese in cui l’afferrare e l’abbracciare si confondono, con spostamenti che spezzano l’unione in solitudini o contrapposizioni. Quando il sottofondo insistentemente percussivo si interrompe, nel silenzio le tre danzatrici si alzano e si fanno donne: alzano la testa e scoprono i seni e i volti prima nascosti dai capelli, si vestono di un identico completo sportivo bianco candido, che le fa apparire repliche di qualche modello pubblicitario.
All’attacco delle ottime musiche di Gabriele Ottino e Anything Pointless, le tre ragazze cominciano ad adeguarsi ad un nuovo ritmo, più contemporaneo, fittamente scandito, modulato su pochissimi timbri e note che si ripetono ossessivamente. Questo impone geometrie del tutto antitetiche alla precedente istintività. Le interpreti assumono una fisicità quasi ginnica, replicano movimenti minimalisti, a tratti robotici, perfettamente sincronizzati: ciascuna figura è specchio delle altre, e insieme interpretano schemi che variano di poco, mantenendo tutte uno sguardo asettico. Persino quando sono in posizione frontale e si avvicinano al pubblico pare che il loro non sia un autentico guardarci, quanto un fronte compatto che avanza.
L’accompagnamento sonoro, un loop dopaminergico, coinvolge sensorialmente il pubblico in una dinamica dai tratti rituali e catartici, che porta ad astrarsi da sé ed immedesimarsi nello sforzo sadico delle protagoniste.
Questo secondo atto, nelle intenzioni delle autrici, pone attenzione alla struttura della materia e alle relazioni nella sua composizione, facendo riferimento alle architetture degli astri e dei pianeti o a quelle fra gli atomi. Ma la femminilità che qui è rivelata fa pensare ad un’altra struttura, o meglio sovrastruttura, che condiziona l’omologazione collettiva e, più nello specifico, quella delle donne a canoni di bellezza e performatività, riducendo le individualità a cliché, le personalità a stereotipi, le esistenze ad automatismi. Ma “Granito” ci suggerisce che su questa scia il soggetto finisce per sbriciolarsi, fino a sfinirsi.
Le tre donne tornano quindi a togliersi le vesti e a riprendere contatto con la loro origine. Nell’ultima sezione, «la materia si disfa, perde pezzi, brandelli, unghie, capelli, in modo tale poi da rilasciare energia allo spazio circostante». Si tratta di una parte forse prolungata in maniera ridondante, dove i corpi perdono la qualità della scrittura precedente, scatenando un’energia tarantolata. Questa e i chiari riferimenti al godimento sessuale invitano a pensare che la decostruzione di strutture e sovrastrutture che imbrigliano in particolare le donne richieda un atto coraggioso: ribellarci alle convenzioni e recuperare il contatto con la nostra autenticità; sembra questo il grimaldello per liberare la gioia – un vero e proprio atto politico urgente da innescare.
Curiosa anche la ricerca del francese Baptiste Cazaux, di casa in Svizzera, che in “Gimme a break!!!” scandisce con vitalità e originalità un dialogo fisico ed interattivo con un impianto audio a sei casse. Una performance dal forte dinamismo, che alterna tratti ironici ad altri drammatici, espressi sia attraverso il corpo che una diversa voce sonora.
La sintonia emotiva stabilita dal performer con la musica sintetizzata e minimalista di Être Peinte rinvia a pratiche di meditazione e astrazione da sé che si sperimentano anche nei rave, alla ricerca di vie di fuga da un sistema capitalistico oppressivo e dai sentimenti di alienazione e depressione che esso genera.
Interessante, infine, lo spazio dedicato alla “Screendance” a cura di Drupa Center, realtà trevigiana che, per promuovere questo medium poco divulgato, organizza il concorso internazionale corposensibile. I tre video selezionati si distinguono ciascuno per la cura e l’impatto dell’immagine: “Let’s call it a tie”, dei russi Vasilly Zhilov e Mayo Selezneva, ricorda le scene catastrofiche di famiglia del film “Festen” del 1998, di Thomas Vinterberg, e ricorre al linguaggio della danza con maggior precisione e coinvolgimento come strumento di narrazione, proponendo scene a due e di gruppo. “Birds” di Liv Runesdatter affida la scrittura coreografica alla gestualità spontanea di due bambini in un bosco norvegese, colto attraverso una fotografia raffinata e poetica; “Siren” degli olandesi Scott Fowler e Boston Gallacher lascia affiorare le emozioni contraddittorie di un soggetto non binario e trans al cospetto di una folla.
Si stanno confermando le anticipazione fornite dalla direttrice artistica Marianna Andrigo: di sera in sera, il pubblico di Venere in teatro non sa mai cosa aspettarsi per la varietà di linguaggi e stili coinvolti.