Continua il tour de “Lo show dei tuoi sogni“, interessante ibrido tra reading (curato da Tiziano Scarpa) e teatro diretto da Fabrizio Arcuri e “musicato” da Luca Bergia e Davide Arneodo. Dall’intervista ai due musicisti (membri della celebre rockband Marlene Kuntz), raccolta durante la tappa romana dello spettacolo, speriamo di rendere chiara la necessità di queste virgolette.
Da dove nasce la collaborazione con Tiziano Scarpa e Fabrizio Arcuri?
LB: Tiziano aveva collaborato al disco dei Marlene “Uno”, le cui liriche avevamo chiesto a scrittori e musicisti di chiosare con parole loro. È nata presto una simpatia, tanto che lui è intervenuto dal vivo al debutto del tour che seguiva l’uscita dell’album. Qualche tempo dopo Davide ed io abbiamo cominciato a suonare insieme, a vedere che cosa poteva venir fuori, per ampliare il range sonoro creando un’atmosfera particolare. C’è allora venuto in mente di chiamare Tiziano proponendogli una collaborazione, qualcosa che in modo naturale unisse narrazione/letteratura e musica. La regia di Fabrizio è arrivata in maniera casuale. Eravamo stati invitati al Festival delle Letterature da Tiziano, che già recitava e che ci aveva chiesto di musicare i suoi interventi con un accompagnamento, come in un reading classico. Sul fondo veniva proiettato anche un video, ma le immagini non erano state neppure selezionate da noi. Fabrizio, che era il regista del Festival, vide lo spettacolo e, essendo già legato a Tiziano da un rapporto di amicizia, gli si propose come “curatore” di una versione più strutturata.
Questa “struttura” ora vi chiede di essere presenti in scena non solo come musicisti, ma come parte dello show. Che collegamenti ci sono tra i due modi di suonare?
LB: È parecchio diverso proprio come impostazione. In questo caso non abbiamo a che fare con la forma canzone, ma con un’architettura sonora che mira a creare una atmosfera. Non abbiamo iniziato a scrivere i
pezzi pensando a un testo. Ma con l’arrivo del racconto, delle parole, delle descrizioni, abbiamo mosso passi ulteriori alla ricerca del senso onirico, spostandoci verso l’elettronica, modificando i colori di queste atmosfere.
DA: L’unica cosa che avevamo previsto già scrivendo i pezzi era la struttura ciclica, che ben si adatta a un racconto perché ha una durata potenzialmente corrutibile.
Andando dunque oltre la semplice forma reading, “Lo show dei tuoi sogni” lascia spazio anche e soprattutto a una interazione tra voi in quanto musicisti e corpi in scena e il corpo del narratore. Si va verso un abbattimento dei ruoli classici, verso una dimensione ulteriore. Questo rappresenta per voi una novità?
LB: Personalmente è una novità completa. Il batterista, per quanto elemento fondamentale per la costruzione e il sostegno di un brano, nelle esecuzioni dal vivo viene sempre collocato dietro al resto del
gruppo, è più defilato, è quello meno visibile. Qui invece mi metto in gioco in prima persona, intervenendo addirittura con intermezzi parlati, interagendo con Davide e Tiziano. Benché gli interventi non siano che sfumature, è un’esperienza che trovo utilissima: da quando mi misuro con questa nuova presenza ora mi sento molto più a mio agio sul palco anche quando mi limito a suonare. In un certo modo è stato
Fabrizio a facilitare questo agio. Ha cominciato collocandoci ai due lati del narratore, come fossimo due suoi arti, e ci dava piccole indicazioni, ha iniziato a muoverci sulla scena.
DA: Era lui che costruiva la scena con indicazioni discrete ed estemporanee, fino a costruire una partecipazione, una presenza davvero attorale nata però in maniera naturale, senza quella paura che
interviene quando ti si chiede esplicitamente di recitare. Per questo ogni volta lo spettacolo è leggermente diverso, perché una direzione come questa tende ad assecondare gli stati d’animo di chi è in scena. Sei te stesso e fai te stesso.
E il pubblico “non teatrale”? Per loro è chiara la vostra presenza ibrida?
LB: È buffo, ma non te lo so dire. Un gruppo di amici che di solito ci vede ai concerti con i Marlene ieri è venuto a dirmi: “Ma c’era qualcosa che non andava? Sembravate spaesati”.
DA: Sono quelli abituati a vederci sul palco performare, con pezzi definiti, con canzoni che hanno una struttura nota. La differenza sta nella presenza incontestabile dell’ironia.
LB: Sì, diciamo che è difficile suonare “ironicamente” in una band. Qui c’è più possibilità di comunicare tra di noi. Anche solo lo spazio: è organizzato molto diversamente.
DA: Lo scopo è di giocare con il dentro e il fuori, preparare il terreno su cui camminano i personaggi.
Avete mai visto uno spettacolo dell’Accademia degli Artefatti?
LB/DA: No, non abbiamo ancora avuto occasione.
Dunque, senza saperlo, state descrivendo quelle che sono le peculiarità del lavoro di Arcuri: il gusto e l’importanza di giocare con i corpi in scena in quanto territorio di confine su cui realtà e finzione si attuano in contemporanea, lambendosi i margini a vicenda.
I personaggi non sono mai del tutto personaggi, gli attori non sono mai solo attori. Ed è così che in scena si crea una piccola distorsione della realtà. È un gioco messo in piedi con la percezione dello spettatore. In questo senso il testo, la vostra musica e la regia hanno un forte legame. Quanto dei vostri interventi è improvvisato?
DA: L’unica parte proprio improvvisata è il noise, che si articola come un vero e proprio discorso tra me e Luca, tra chaos pad e nordelectric. In quanto tale, non sarà mai due volte uguale. Ma non definirei il noise un vero e proprio brano, è più un’operazione sonora. In altri due pezzi sono io che scelgo vari strumenti per interagire con quello che fa Luca. E non si tratta di brani strumentali, di cui non conservano le evoluzioni strutturali. Paradossalmente sono più simili a canzoni, come forma. Di certo non si tratta però di un accompagnamento, ma di una interazione. Mettiamo accenti sonori su parole e frasi, con l’intenzione di enfatizzarle, più che sottolinearle.
Nel prologo dello spettacolo il narratore raggiunge il proscenio e, in tono assolutamente naturale, spiega agli spettatori che vuole stimolare l’immaginazione. Chiede al pubblico di fare uno sforzo per aggiungere i passaggi che mancano e visualizzare, particolare dopo particolare, gli scenari evocati dal racconto. Lavorando dal vivo sulle parole di quel racconto, apponendo i vostri personali accenti, vi capita di visualizzare effettivamente quegli scenari? Visualizzate e dunque fate visualizzare?
LB: Una bella domanda. Io credo che la cosa dipenda proprio dall’approccio che si ha alla musica. Per comporre questa sonorizzazione e trovare il tuo posto specifico in una performance che ha altri elementi, devi essere innanzitutto attento e concentrato, perché c’è molta tecnica. Il modo migliore sarebbe nel trovare un equilibrio saldo tra il lasciarsi andare al racconto e il governare la tecnica. In quel modo interagisci davvero perché riesci ad essere davvero “presente”. A volte quell’equilibrio non lo trovi e finisci per essere o troppo rigido e teso o troppo evanescente.
DA: È difficile anche perché è una forma che stiamo ancora imparando a conoscere. Quando suoni in una band, soprattutto con una storia di vent’anni come Marlene, entri a contatto con delle strutture già ben precise, ben radicate. C’è un legame chimico che qui va ancora trovato.