Tra i relatori del convegno “Ivrea 50“, Pippo Delbono è tornato in Liguria, al Palazzo Ducale di Genova. Quella Liguria, sua terra natale amata e detestata, in cui ha anche replicato “Vangelo” al Teatro della Corte.
All’interno delle riflessioni su mezzo secolo di Nuovo Teatro in Italia (di cui su Klp abbiamo offerto un ampio reportage) Delbono porta tutta la sua dissacrante teatralità. Un’ora e oltre di monologo quasi ininterrotto e solo saltuariamente collegato al tema.
D’altra parte lui è così, talmente tanto “così” da essere diventato quasi un classico, un genere, fino al punto di chiedere al pubblico: “Sto dicendo delle cazzate?” e conquistare l’applauso della platea.
Il risultato è che il suo contributo è stato poi riportato, citato ed evocato più volte durante il proseguire dei lavori. Pesante la sua visione del teatro contemporaneo, feroce la sua opinione sulla critica, pessimistica la sua relazione con tutto ciò che è altro da lui.
Per questo lo incontriamo al termine della conferenza, all’esaurimento di uno sfogo piuttosto impetuoso che avvertiva come necessario.
Decidiamo quindi di iniziare con una piccola provocazione che vuole essere però un chiarimento, chiedendogli, in fin dei conti, dov’è questo teatro nuovo. La risposta non può che essere “delboniana” e porre l’attenzione sulla sconfitta di un certo modo di fare teatro, sull’emergere del vecchio a discapito del nuovo, sulla critica esplicita ad un universo italiano troppo conservatore.
C’è però, nelle parole di Delbono, un’attribuzione di colpa anche al nuovo stesso che, a suo modo di vedere, non è riuscito a farsi carico di quella necessità di contenuto “altro” che è invece lì ad aspettare qualcuno pronto a metterlo al centro, ad abbracciare il fucile della rivoluzione in “una lotta armata, ma di poesia”.