
«È stata una scelta artistica aiutata da una serie di condizioni, tra cui il fatto che siamo partner di Open Latitudes, una rete di festival internazionali che ha base in Francia e si occupa di sostenere le cosiddette forme ibride della scena, sia dal punto di vista produttivo che da quello delle residenze e della distribuzione» ci ha raccontato Alessandra De Santis di Teatro delle Moire, la compagnia milanese che organizza da quindici anni Danae.
Open Latitudes nasce nel 2008 da due principali necessità: sostenere una giovane generazione di artisti e favorire lo sviluppo di espressioni ibride legate al concetto interdisciplinare alla base della loro collaborazione; attualizzare l’esistenza di una rete è invece l’altra spinta di Open Latitudes rispetto alle esigenze del settore delle arti e alle contingenze “critiche” che si avvertono non solo in Italia.
E il lavoro è realmente coordinato: «Tutti i partner della rete propongono degli artisti da sostenere – prosegue Alessandra – Poi le varie strutture scelgono quali coprodurre e codiffondere, e per questo si intende che almeno tre partner si prendano in carico lo stesso lavoro mettendolo in programma. Siamo soddisfatti perchè abbiamo già ottenuto diversi sostegni, ad esempio per la compagnia Garten (di Giorgia Maretta e Andrea Cavallari) che ha vinto una quota di produzione e quindi nel 2014 sarà a Danae nuovamente grazie alla coproduzione della rete. Per quanto riguarda questa quindicesima edizione di Danae, il rinnovo di Open Latitudes, arrivato a fine maggio da parte dell’Unione Europea, ci ha permesso di collocare Christian Rizzo in questa seconda parte del festival».
Danae parte 2 è però anche l’esito di un’ulteriore collaborazione da parte del Teatro delle Moire, questa volta sul proprio territorio: «Per la presenza di Mala Kline c’è stata una vera collaborazione con Zona K, una messa in comune di risorse non solo per lo spazio che la ospiterà, ma soprattutto per una sorta di direzione artistica condivisa: è stata infatti Zona K a segnalarci l’artista slovena; il suo lavoro ci è piaciuto ed è entrata nel programma».
Nella sala di via Spalato vedremo quindi “Eden”, un lavoro nel quale Mala gioca con il pubblico e trasmette l’illimitata libertà dell’espressione artistica attraverso il qui e ora del teatro e maschere animali indossate come farebbe un clown.
«Per quanto riguarda Rizzo, è un coreografo che viene da un percorso stranissimo: aveva una rock band, poi ha deciso di fare il danzatore, il performer. Il lavoro che vedremo al PimOff lo ha costruito per sé e poi affidato al danzatore Kerem Gelebek. Da questo passaggio, il solo, di una bellezza e di una precisione rare, ha acquistato ulteriore senso per lo stesso Rizzo rendendo ancora più forte il suo significato: parla infatti di esilio, come quello vissuto da Kerem, dalla sua patria alla Francia».
Nel resto del programma, il progetto su Anne Sexton di Milena Costanzo in collaborazione con Gianluca De Col, che Danae aveva presentato lo scorso marzo ospitando una tappa del ciclo dedicato alla famosa poetessa americana: dal 24 al 30 novembre, nell’atelier creativo del Teatro delle Moire, LachesiLAB, sarà possibile ripercorrere l’intero progetto “Cleaning the House”, per avere un primo sguardo globale su questo percorso svolto finora a tappe in spazi differenti di Milano e con approcci diversi alla materia poetica e biografica, ma che sfocerà in uno spettacolo, la prossima primavera al Teatro i.
Una partnership attivata a livello internazionale, una presenza radicata sul territorio, incontri fortunati e felici ritorni restano comunque una parte del grande lavoro di direzione artistica svolto dal Teatro delle Moire con Danae: «Nelle condizioni in cui ci troviamo ad operare è molto faticoso creare due appuntamenti in un anno – spiega Alessandra – Ci sono tanti artisti nuovi che vorremmo ospitare però, non sapendo mai anno per anno di quanto si dispone e quando, si crea un problema non indifferente, che ci mette in imbarazzo anche rispetto alla rete. All’estero sono abituati a programmare di tre anni in tre anni, come sarebbe giusto. Come compagnia, capiamo sia il bisogno di esporsi alla visibilità, sia la necessità di avere una data definita con ampio margine di tempo».
Questo permetterebbe di lavorare meglio e magari anche di più?
«Sicuramente permetterebbe di dedicare tempo anche alla ricerca di fondi e sostegni, risorse e residenze, e sarebbe uno stimolo: un tempo per far depositare il lavoro e, una volta fatto, un ulteriore tempo di maturazione, sono necessari. La fretta, la novità a tutti i costi, non ha niente a che fare con il fare arte. All’estero, uno spettacolo gravita in diverse situazioni anche stando all’interno della stessa città. E un lavoro deve girare, andare nel mondo, non ha senso che si creino spettacoli che finiscono nel cassetto, soprattutto per il teatro contemporaneo che si basa sulla ricerca: un lavoro non si può mai dire del tutto chiuso, è nella relazione con il pubblico semmai la reale chiusura del cerchio, quando l’artista comincia a capire delle cose sul suo lavoro, e si aprono altre porte. Spettacoli bellissimi che si possano vedere una volta sola, è una logica tutta italiana dalla quale bisognerebbe uscire.
Come? «Ad esempio, per i festival, si è parlato di una convenzione mirata a una programmazione triennale: sapere che per tre anni prendi una cifra, piccola o grande che sia, darebbe la dimensione entro cui lavorare. Il “non sapere mai” mette a rischio anche il nostro obiettivo di coerenza: in Danae non c’è un tema e nemmeno è necessario creare un filo, però la coerenza sta nell’evidenza di una poetica in linea con la nostra».
A livello di “vocazione” artistica, di forma, e di contenuto? «Rispetto ai temi c’è libertà, e succede che senza averlo preordinato, poi il filo si traccia o rintraccia: come avviene in scena, quando le cose che fai si stratificano senza rendertene conto, lo stesso è per lo sguardo che abbiamo noi sugli altri spettacoli. Ad esempio, ho trovato grande coerenza nella prima parte di Danae e sono contenta perchè quello che interessa a noi è proprio tenere insieme delle vocazioni, delle anime, che sono tre: la ricerca, che sottosta a tutti i lavori; la possibilità di mettere in campo tanti e diversi codici, che possono essere il teatro, la danza, il suono, ma nella ricerca di un linguaggio personale e riconoscibile; e infine il lavoro sulla performance. Per il contenuto, dipende da come sta nella forma: a volte le idee restano pura forma e, paradossalmente, l’essere originale diventa omologazione parodiabile. Offrire spettacoli senza comunicazione è assolutamente inutile, è una ricerca che si avvita su se stessa. Bisogna invece esigere che il pubblico faccia uno sforzo, perché fa parte dello spettacolo».