
Due mostri sacri del palcoscenico come Giovanna Marini e Umberto Orsini da diversi anni portano in giro la “Ballata del carcere di Reading”, poema di Oscar Wilde meno conosciuto rispetto alle sue opere più celebrate, fra cui spicca il famosissimo “Ritratto di Dorian Gray”.
Al centro del poema di Wilde un giovane recluso condannato a morte, che il poeta inglese incontra nel carcere di Reading, dove è rinchiuso per scontare una pena di due anni per omosessualità. L’uomo, ex soldato della giubbe rosse, è condannato all’impiccagione per l’omicidio della donna amata. Il poema è una riflessione sul carcere e le conseguenze di tale devastante esperienza su chi ne è vittima.
Il lavoro a cui assistiamo ad Armunia si dimostra compatto e riuscito. In cinquanta minuti fa emergere la potenza e la qualità dei protagonisti, due maestri della scena che non sembrano sentire il peso degli anni.
Chi si aspettava, vista la materia, qualcosa di impostato e faticoso verrà insomma smentito. Niente di caricato o esibito, e nessuno spazio alla retorica, un pericolo sempre in agguato in simili operazioni.
Prima della tappa toscana, a pochi minuti dalla messinscena, abbiamo incontrato – separatamente – i due artisti nei camerini della tensostruttura del Castello Pasquini, per approfondire genesi e tematiche di questo lavoro riuscito ed efficace.
Fra preparativi in corso, tecnici ed assistenti che entrano ed escono dai camerini, e tempi strettissimi per l’intervista doppia, l’ansia di risultare ospite indesiderato al cospetto di Umberto Orsini è materia da tenere a bada.
Quando, di corsa, mi ci trovo al cospetto, Orsini, a dispetto dell’età, pare un giovanotto scattante e deciso. Una figura magnetica, e la sua voce, mentre fuma una sigaretta che immaginiamo non sia la prima, risulta profonda quanto il suo sguardo penetrante.
L’alone di grand’attore, davanti allo specchio del camerino, si amplifica fino ad avvolgermi. Ma mancano pochi minuti e c’è tempo solo per alcune domande, a cui risponde comunque con generosità.
Qual è l’Oscar Wilde reale che viene fuori da questo lavoro rispetto allo scrittore ‘mitico’ che conosciamo in modo superficiale?
Wilde in Italia non è molto conosciuto. Lo è solo attraverso due o tre commedie: “Un marito ideale”, “L’importanza di chiamarsi Ernesto” e “Il ventaglio di Lady Windermere”, che sono anni che non vengono messe in scena. E’ conosciuto per il romanzo “Il ritratto di Dorian Gray”, ed è molto amato dai giovani per via di aforismi brucianti e brillanti.
La “Ballata” in realtà era poco conosciuta; noi la portiamo in giro da circa dieci anni. Ed è un Wilde molto diverso. Assomiglia un po’ al “De profundis”, che però è molto più violento, narra di fatti della sua vita, di tutta la vicenda che l’ha portato in prigione. Nella “Ballata” invece si parla di un capitano delle giubbe rosse condannato a morte perché “ha ucciso la cosa che ama”.
Ma quello che è profondissimo, secondo me, è che sostiene che ognuno di noi uccide la cosa che ama, non solo in senso reale: uccide dentro di sé un ideale, una aspirazione, un amore… sono sempre uccisioni vere, dolorose, ma non tutti quelli che commettono questo tipo di omicidio virtuale vanno poi a morire, invece questo signore va alla morte.
C’è un’empatia tra poeta e condannato, anche se i due in carcere non si erano direttamente incontrati, si erano solo intravisti come due “barche in mezzo alla tempesta”, dice nel testo, e “non nella oscura notte – con un termine scespiriano – ma nell’osceno giorno”.
L’altra cosa molto bella di Wilde è un insospettato – per me – spirito religioso. Ci parla poi della legge: “Io non so dire se è legge ingiusta o giusta, so soltanto che languiamo in carcere […] dove rinsecchisce il grano”; tutte le cose belle le fa diventare paglia e “fa fiorire gli sterpi”. La legge del carcere rivolta tutto, fa peggiorare le persone… La “Ballata” è una violentissima accusa contro la pena di morte; è un Wilde sorprendente e molto diverso da quello che tutti quanti conosciamo.
Com’è nata l’idea dello spettacolo?
Ho cominciato a farne un piccolo pezzetto in uno spettacolo di Pippo Delbono, “Urlo”, e Giovanna, che stava con me, sentendolo ha avuto l’idea di metterlo in musica. Ma in italiano non riusciva. “Sarebbe una bellissima idea se tu lo facessi in inglese coi testi di Oscar Wilde”, le ho detto.
La traduzione di Elio De Capitani e mia non è in versi, ma ha dentro una musicalità che bilancia quella del lavoro di Giovanna. Quest’unione molto felice ha reso lo spettacolo un evergreen: lo facciamo da anni adattandolo in tante forme, per spazi grandi, piccoli, con leggio, senza, con dei tavoli… Tutte le volte lo cambio, e la regia di Elio, ormai rimasta solo una traccia, si adatta.
Lo spettacolo era di Emilia Romagna Teatro. L’ho fatto riesumare e l’ho messo nel repertorio della mia compagnia: tutto ciò ha dato un nuovo impulso.
C’è inoltre una cosa che non ho mai detto, o solo raramente…
Ormai non può non svelarcela…
Non conoscevo la “Ballata”. Anni fa [era il 2004, ndr] avevo sentito che Adriano Sofri la voleva leggere nel Duomo di Milano, ma poi gli fu impedito. Scrissi a Sofri una lettera a cui non ha mai risposto e che probabilmente non ha neppure ricevuto, in cui gli dicevo che l’idea di fare la “Ballata” mi era venuta in seguito a questa notizia.
Sofri, colpevole o non colpevole – questo non sta a me giudicare -, avrebbe voluto leggere la “Ballata” per descrivere le condizioni del carcere.
Come si dice nella “Ballata”, è inutile scambiare morte con morte. Eppure “lui aveva ucciso una cosa viva, ma loro un uomo morto”: è questa la cosa molto forte; un uomo in prigione è già un uomo morto, che non ha possibilità di redenzione. Evidentemente è per questo che Sofri voleva leggerla; così sono andato a curiosare e ho capito l’importanza e la potenza del testo.
C’è un rapporto tra “Woyzeck”, altro celebre condannato a morte, e questo testo?
Nel “Woyzech” c’è la violenza personale di un’autorità maggiore, qui c’è il carcere, che è autoritario, circondato da altri figuri: il parroco, il direttore del carcere…
Ma le analogie tra i due personaggi – uno vissuto, nel “Woyzech”, e qui raccontato – ci sono: è venuto in mente anche a me…
C’era il pericolo di cadere nella retorica affrontando un tema del genere, e soprattutto volendo trasmetterlo al pubblico. Come si è difeso da questo pericolo, se lo ha visto?
La retorica potrebbe essere nel tradurre: l’italiano è sempre in qualche modo un tono un po’ più drammatico, più rotondo dell’inglese. Ad esempio, quando in inglese si dice “awful” qui si traduce con “orrendo”, e orrendo ha già due erre e ci puoi pesare sopra, caricare… Allora, secondo anche la mia tecnica, si devono lasciar viaggiare le parole col loro significato senza caricarle, non far scopa sulle parole. Le parole “bello” o “brutto” contengono già il significato senza dover insistere: questa è un po’ l’operazione che faccio sempre, di asciugare e togliere anziché aggiungere, anche se ci sono dei momenti in cui, teatralmente parlando, un po’ devo darci dentro…
Mancano dieci minuti circa all’inizio dello spettacolo. Una giovane assistente ci accompagna al camerino di Giovanna Marini. Da dietro la porta accostata arrivano i suoi vocalizzi mentre scalda la voce. L’andirivieni di tecnici ed assistenti aumenta. Vengo introdotto nella stanza assieme alla sua chitarra accordata, portata da un tecnico e pronta ad entrare in scena.
Lei è educata e, complice l’austera figura, ricorda un’insegnante di inglese di un severo liceo; ma quando parla è schietta e diretta in quel suo italiano elegante, nonostante non sembri apprezzare troppo le mie domande…
L’intervista volerà, mancano pochissimi minuti prima della chiamata in scena.
La Marini si scuserà del poco tempo concesso, sorprendendoci per la sincerità che trasmette: una gran signora, alla faccia di tutti quei complicati giovani attori da cui spesso siamo circondati.
Signora Marini, come interviene la sua musica in questa “Ballata”?
Sono abituata a fare musica per teatro, ne ho fatta tanta… Come interviene??? Benissimo! Io avevo cominciato e pensavo di farla tutta cantata, ma è impossibile perché durerebbe un’infinità. Allora Orsini ha detto: io parlo nella traduzione italiana e tu canti, fai cinque ballate. Così ho scelto le più significative e sono partita.
Sa, componendo – lo dico anche quando presento lo spettacolo – leggo la poesia tante e tante volte ad alta voce, fino a quando la melodia viene fuori naturalmente. Quando si parla ci sono alzate e calate di tono che portano alla melodia… Poi dipende, delle volte metto il quartetto vocale senza strumento, altre volte metto gli strumenti. Qui c’è la chitarra perché volevamo fare una cosa di “poco prezzo”, una cosa che potesse girare leggera, allora ho messo solo la chitarra e scritto questa partitura; certo, pian piano abbiamo tolto tanti movimenti, perché abbiamo visto che non servivano. In questo caso è bello stare più concentrati sul testo, bellissimo. Così è partita la cosa…
Ha mantenuto l’inglese.
Sì, è una lingua che parlo normalmente perché sono stata educata in Inghilterra, quindi mi veniva molto meglio in inglese che in italiano, questo è sicuro. E poi Wilde usa una lingua inglese straordinariamente raffinata, bellissima, con parole composte, inventate, quindi ho lasciato tutto l’inglese tranne due frasi che ho inserito in italiano tradotte da De Capitani.
Nel 2004 aveva lavorato sia sul “De profundis” che sulla “Ballata”. Che rapporto c’è tra questi due testi?
Sono due magnifici lavori. Il “De profundis” è completamente diverso, è una riflessione sulla maledizione della vita di un omosessuale; invece la “Ballata” è questa bellissima attenzione che lui pone verso un’altra persona, una specie di studio empatico verso un altro, non su se stesso. Raccontare l’esperienza del carcere vista da un altro è molto significativo.
Ho posto la stessa domanda anche a Orsini. C’era il pericolo della retorica con un testo del genere?
L’ultima cosa che mi viene in mente è la retorica, perché Wilde è un grande poeta. Noi solitamente conosciamo e leggiamo il “Ritratto di Dorian Gray” e sappiamo che lui era un gran farfallone, che viveva i salotti mondani e così via. Questo, prima della tragedia.
Ovunque andiamo con questo lavoro, vedo come tutti rimangono stupiti e dicono: ma Wilde è un poeta di peso!
Qui c’è la volontà di fare un testo contro la pena capitale, e poi è un testamento… lui sente che sta per morire, è uscito dal carcere e sa che ha poco tempo, quindi non perde tempo.
In Wilde non ho mai sentito retorica, forse qualcosa in Dorian Gray, quando vuole insegnarci…
Quindi non ha sentito il pericolo della retorica neppure nella messinscena…
Io non me lo sono proprio posto questo problema. Però credo che De Capitani e Orsini, che hanno lavorato alla traduzione, se lo siano posto. Il pericolo ci può essere certamente, ma i toni di Wilde sono incredibili. Lui dà per scontata la sua omosessualità, anche se è per quella che sta in carcere e muore. Ma non c’è nessun vittimismo, anzi è proprio il contrario!