
Devo incontrare Marika Tesser, simpatica attrice trevigiana fra i protagonisti di Sguardi, in centro a Treviso. Ma piove, ed è giorno di mercato. Ci sentiamo al telefono e decidiamo di trovarci in uno dei tanti bar fuori dalle mura.
Quando all’ingresso m’imbatto in un amico che non vedo da secoli, e che si lancia in un monologo fitto fitto d’un quarto d’ora sulle vicissitudini tra salute e malattia dei suoi ultimi dieci anni, penso che Marika scapperà. Ogni tanto la spio con la coda dell’occhio per captare il livello di sopportazione, ma invece lei è quasi divertita, e alla fine guadagna due baci di commiato.
Se la dimensione intima è quella di cui andavamo in cerca per la nostra chiacchierata, sbagliamo di grosso. Dopo l’incontro fuori programma, eccoci piombare in una grande confusione fatta di musica, televisione e slot machine, che più che Treviso sembra d’essere a China Town. Eppure nuovamente Marika sembra non darci peso, ha una buona chiacchiera e non c’è il rischio d’impantanarsi in silenzi imbarazzanti.
La Tesser ha presentato ieri, all’interno della sezione Colpo d’occhio della prima giornata di Sguardi, una nuova elaborazione del suo ultimo lavoro, “Ghiaccio”.
Pensando alla sua formazione (tra prosa e commedia dell’arte) e all’ultimo lavoro, un racconto ispirato alla fotografa friulana Tina Modotti, la perfomance presentata a Venezia sembra un po’ fuori “squadra”; ma poi tutto torna, in quegli opposti che l’attrice sta cercando di far dialogare. Considerare l’opposto, prendersi un momento per accorgersi che c’è sempre un’altra parte, dentro e fuori. Scivolando senza esclusione, considerando l’opposto come una grande opportunità: per scoprire che differenziazione ed evoluzione coincidono come composizione dell’unità.
“Per un lungo periodo ho vissuto nella negatività della vita, consideravo solo una parte ed escludevo l’altra. Ascoltare gli opposti e farli convivere è un grande aiuto nella vita di tutti i giorni, fa cambiare qualcosa – introduce Marika – La sfida che mi sono data è quella di partire da qualcosa di cupo, crudo, nero e magari anche un po’ spaventoso, per arrivare a un cono di luce, di respiro. La ricerca di una trasformazione, insomma”.
La prima uscita di “Ghiaccio” risale al 2010. Nella mente dell’artista appare inizialmente come un giocoso delirio sul tema della leggerezza, un modo come un altro per acchiappare al volo un’occasione, il festival Comodamente di Vittorio Veneto.
“Mi sono chiesta in che modo sviluppare il tema della leggerezza; la risposta più naturale che ho trovato è stata: partire dal suo doppio, dalla pesantezza. Se gli opposti si attraggono, facciamoli convivere”.
Marika presenta un primissimo studio, forse senza nemmeno crederci più di tanto. Sono solo dieci minuti che aprono però un varco nell’interesse altrui e in quello della performer stessa, che si trova a esplorare qualcosa che prende le distanze da una formazione di matrice “classica”, portandola in breve a riconsiderare il progetto in termini più ampi. La performance ha un impatto visivo molto forte, a tratti inquietante, ma l’intenzione di Marika è di non lasciare spazio solo all’occhio, bensì di creare una vera partitura di immagini, suoni e movimenti, amalgamando l’uno con l’altro ogni opposto.
In effetti, il doppio è presente fin dalla prima immagine della creatura che emerge dalla nebbia durante la performance: ha un che di oscuro, quasi mostruoso, e allo stesso tempo anche le belle sembianze di una sposa. Si potrebbe pensare quasi a una sposa cadavere burtoniana, se non fosse per la mancanza di elementi “spassosi”.
“La creatura della performance fa parte del mondo materiale ma non è umana. E’ una creatura super partes con una sorta di consapevolezza in più. In questa creatura convivono amorevolmente due opposti, per questo dico che è super partes. Solitamente l’uomo tende a combattere gli opposti; la creatura invece li vive semplicemente, e sperimenta vari modi per arrivare a comunicare, attraverso il suono la parola il segno, quest’altra possibilità di ascolto”.
“Ghiaccio” è un lavoro astratto, visionario, dato dalla combinazione di pochi elementi, di materiali poveri: “C’è chi mi ha detto che l’argilla in faccia, sul corpo, è tipica del teatro di strada anni ’70; io non lo sapevo… d’altra parte non ho una produzione che supporti il tempo che dedico alle prove o l’acquisto di costumi. Cosa faccio? Apro l’armadio e scelgo quello che potrebbe tornarmi utile, come un lenzuolo bianco. E’ un modo per essere più creativi”.
Salutando Marika le chiedo se il fervore teatrale veneto di cui si parla ultimamente ha in qualche modo toccato anche la sua “solitudine” artistica: “Il Veneto ha sempre cercato di coltivare il proprio orticello, con la paura che gli altri portassero via qualcosa; c’è sempre stato un grande senso di competizione (probabilmente non solo qui), che ha contribuito a distruggere quello che venti, trenta anni fa era stato trovato. E’ vero però che quando distruggi qualcosa quello che puoi fare dopo è ricostruire nuovamente. Questo è un po’ quello che percepisco qui attorno, e che in qualche modo coincide con un periodo più roseo per la mia attività artistica, non tanto in termini di soldi ma di possibilità. Finalmente, negli ultimi cinque anni, sono riuscita a vivere del mio lavoro teatrale, che non vuol dire solo spettacoli ma anche corsi e laboratori per il carcere minorile di Treviso, per associazioni e scuole, esperienze che oltre a rispondere ad una necessità lavorativa sono sempre una bella palestra. L’anno scorso ho costituito l’Associazione Teatro Capovolto, ho trovato uno spazio dove provare e organizzare attività; contemporaneamente è nato la comunità artistica Enzimi, e quindi la voglia di incontrarsi e sviluppare qualcosa insieme. Creare una rete teatrale è importantissimo: le informazioni girano più velocemente e tutto diventa più accessibile”.