Un passaggio di testimone fra l’estate e l’autunno. Il turnover dagli spettacoli en plein air dei festival vacanzieri a quelli che si svolgono nel chiuso delle sale teatrali. Questo è Opera Prima, la rassegna organizzata a Rovigo dal Teatro del Lemming, che dal 12 al 15 settembre ha coinvolto artisti italiani e internazionali in un tourbillon di teatro, poesia, musica e danza.
Nato nel 1994, costretto per diversi anni ad arrestarsi a causa del taglio dei finanziamenti, Opera Prima è rinato puntualmente dalle ceneri come una fenice, ed è giunto alla XV edizione. I contributi nel 2019 sono stati molteplici: dal Ministero per i beni e le attività culturali alla Regione Veneto, dall’Assessorato comunale alla cultura alla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, al Teatro Sociale di Rovigo.
Dai linguaggi performativi, teatro fisico e danza, sono arrivati alcuni riscontri interessanti. Come “Ombelichi tenui (ballata per due corpi nell’Aldilà)” drammaturgia di Carlo Galiero, costumi di Silvia Dezulian. Due buffe figure di nero vestite, Filippo Porro e Simone Zambelli, dilagano nell’ampio spazio dei Giardini delle Due Torri. Brancolando, gemendo, urlando, caracollando, avvinghiandosi in istrioniche schermaglie, esse esprimono il proprio dolore grottesco.
Il lavoro site-specific è un modo non tanto per esorcizzare la morte, quanto per attraversarne le angosce. Il confronto con l’aldilà e le sue incertezze è ineludibile. Porro e Zambelli approfondiscono, arricchendolo di suggestioni escatologiche, il tema del viaggio che caratterizza la loro poetica. Essi indagano il tema dell’amicizia in un confronto corpo a corpo. Si disperdono nello spazio dilatato della scena tra monumenti e natura. Scuotono il pubblico con acrobazie, passi cadenzati, gesti ritmati. Si producono in abbracci, fughe, schiacciamenti, giravolte. Dalle loro bocche ingurgitanti cibo esce un grammelot stiracchiato e claudicante. Fino ai disincantati desideri espressi in mutande, a schivare ogni velleità onirica: «Vorrei reincarnarmi in un insetto, appiccicato alla terra, con gli occhi bassi […] senza pensare […] non voglio sognare».
Teatro, danza e performance caratterizzano anche “Bonds” dei polacchi Teatr A Part. Supportata da Marcin Herich alla drammaturgia e alla regia, Marlena Niestrój inscena al Teatro Studio il groviglio di forze e contraddizioni che caratterizza la vita. Con l’aiuto di una fune, una porta stilizzata e un fascio di luce, con echi iniziali e finali di musica sinfonica, la protagonista esprime la propria fisicità statuaria. La coreografia sinuosa viola gli spazi, attraversa il discrimine tra lecito e illecito, in un mix adrenalinico di piacere e dolore. La corda evidenzia un percorso tortuoso. È filo di Arianna, ma anche guinzaglio e capestro. È cordone ombelicale, ma anche catena. È sinonimo ora di appartenenza ora di soffocamento. “Bonds” è un rito iniziatico estremo, con il limite di un linguaggio facile. Il nudo integrale e la metafora erotica occhieggiano a tratti allo spettatore, seguendo un canovaccio in fondo prevedibile.
Più intrigante “Romeo, Romeo, Romeo”, coreografia di Joshua Monten. Nel cortile di piazza Annonaria, con il pubblico disposto in duplice fila attorno a una specie di ring, quattro danzatori internazionali (David Pallant, Max Makowski, Jasmin Sisti e Jack Wignall) su drammaturgia di Guy Cools, rappresentano l’eterno ballo di Romeo e Giulietta. Ora in ensemble, ora con tocchi individuali, gli artisti si avvicinano al pubblico con pose soffici e gentili, oppure con movenze istrioniche e tarantolate. Fra antropologia ed etologia, lo spettacolo trae spunto non solo da balli etnici (greci, neozelandesi ecc.) o dai ritmi di balere e discoteche, ma anche dai vari rituali di corteggiamento degli animali. I protagonisti diventano quadrumani, uccelli, insetti, crostacei. Si esibiscono di volta in volta anche le parti singole, irrelate, dei loro corpi: il tronco o le gambe, il bacino o l’inguine. Anche i capelli volteggiano in modalità centrifuga. La destrezza e il vigore acrobatico virano a tratti verso il farsesco. I toni languidi si alternano a movenze ipercinetiche. Assistiamo all’estenuazione del corteggiamento. Il parquet diventa intreccio di scie di sudore.
Un lavoro bizzarro, malizioso, disperato, che descrive la fatica del contatto tra i sessi e l’arduo compromesso tra l’identità reale e le maschere che indossiamo quando siamo in relazione con gli altri.
A suggellare il festival c’è la parola nuda di Mariangela Gualtieri (Teatro Valdoca) e della sua “Nostalgia delle cose impossibili”. La parola ci definisce e ci rende riconoscibili come esseri umani. Guidata da Cesare Ronconi, Gualtieri trasforma l’esperienza vissuta in simboli da usare nella vita quotidiana. Il linguaggio è potere che ci rende simili ai celesti.
In “Nostalgia delle cose impossibili” la poesia è rito sonoro. La musica è la forma orale della poesia. I versi impalpabili assumono fisicità nell’atto in cui diventano voce. L’incanto fonico arriva al cervello e al cuore.
Poesia rarefatta, come la scena. Una musica sfumata accompagna la protagonista È una colonna sonora ridotta all’essenziale. Ogni potere evocativo è lasciato alla voce sguarnita davanti al microfono. La parola entra in un giro di forze. Mariangela Gualtieri dosa versi e pause. Anche il silenzio è poesia. I gesti sono fermi e solenni. La luce illumina una Moleskine che rimbalza tra le mani. La tessitura si basa su un filo narrativo in cui la natura è in primo piano. L’io è in ascolto del suono. Le parole si fanno materia. La voce della Gualtieri è quella di una sibilla che biascica la fragilità e l’infinito.