Tris d’amore, di vita e di ferro: le prime Schegge di Cubo Teatro

Primo amore (photo: Bruno Garetto)|Ilaria / Simone (photo: Bruno Garetto)
Primo amore (photo: Bruno Garetto)|Ilaria / Simone (photo: Bruno Garetto)

“Dicevi: morte, silenzio, solitudine;/ come amore, vita. Parole/ delle nostre provvisorie immagini./ E il vento s’è levato leggero ogni mattina/ e il tempo colore di pioggia e di ferro/ è passato sulle pietre,/ sul nostro chiuso ronzio di maledetti./ Ancora la verità è lontana./ E dimmi, uomo spaccato sulla croce,/ e tu dalle mani grosse di sangue,/ come risponderò a quelli che domandano?/ Ora, ora: prima che altro silenzio/ entri negli occhi, prima che altro vento/ salga e altra ruggine fiorisca”
(S. Quasimodo, “Colore di pioggia e di ferro”)

Minimo comun denominatore delle prime due date di Schegge, che ha preso il via a Torino al Cubo Teatro, sembra essere il complesso viluppo tra sentimento e vita, legati a “filo” doppio (se non triplo) da una catena di ferro, ossidata e minacciosa. È una ruggine che invade il cuore, i ricordi, finanche il mondo che alberga fuori dalla finestra e che aspetta assonnato sulla banchina di una stazione. Si tratta di una congerie di verità diverse, al pari di quelle cantate dell’ermetico di Modica: ci sono verità adolescenziali, verità filosofiche e verità personali.

Ad aprire le danze, lo scorso 22 e 23 ottobre, è stato “Primo Amore”, sold-out interpretato dall’ottimo Roberto Turchetta, per la drammaturgia sonora e la regia di Michele Di Mauro.
La reazione del pubblico, come testimoniano i vari Tips raccolti, è stata molto calorosa: «Ho ricordato in ogni istante il mio primo amore – scrive un anonimo spettatore – e ho voluto piangere tanto».
Una situazione, dunque, quella descritta da Letizia Russo (vincitrice del Premio Tondelli e di un Ubu 2003) capace di produrre – come era normale aspettarsi – risonanze universali. Ma non c’è nulla di banale o di ovvio in questa scrittura, che ricorda – lo ammette anche Di Mauro – la verve affabulatoria e lo stile “a cascata” del buon Joyce: «molte suggestioni devono aver agito sull’opera di Letizia, che ci siamo impegnati a rispettare con fedeltà».
Il testo, ad un certo punto, recita: «Ti pregavo, sai, dicevo: tu, Dio dei quindici anni, prego di non vederti mai a venti, né a trenta né a quaranta, Dio dei quindici anni, tu, almeno tu, resta così se puoi». Ed è proprio questo demone interiore della pubertà, l’Amore, che invade e capitalizza i pensieri del giovane, a meritare il titolo di Primo attore.

Ne è passato di tempo da quei quindici anni, il livore si è sopito e i ragazzini sono divenuti uomini (impressionante peraltro la capacità di penetrazione della psiche maschile da parte dell’autrice). Ma quel sentimento non si può scordare, mai. Tanto più che questo verbo starebbe etimologicamene a significare proprio l’atto di “strapparsi via dal cuore dal petto”.

L’azione scenica è geometricamente delimitata da un perimetro bianco, che forma come un grande quadrilatero (all’interno del quale si affastellano scarpe, trenini, sedie e lampadari): l’attore perlustra con ponderazione tutto lo spazio disponibile, ora in piedi, ora sdraiato. Non si lascia però ingabbiare e progetta sfondamenti ed evasioni. Turchetta, ad un certo punto, supera il finis terrae, sedendosi vicino al pubblico, cingendo però il proprio posto con una barriera di nastro di carta.
Più tardi uscirà dallo spazio teatrale, al freddo, per andare a recuperare alcuni oggetti di scena posti per strada. Lo spettacolo si chiude con la fioca luce di un basso lampadario anni ’70 e il sottofondo di Patty Pravo, mentre all’uomo – elegante ma profondamente solo – sembra non restare più nulla.

In “Simone Weil. Concerto poetico”, di Ilaria Drago, la ruggine panica di cui si discorreva più sopra si deposita sugli ingranaggi delle fabbriche, sulle “baionette” di guerra, sul nome di Dio.
Siamo nel vestibolo della Morte, ma sull’uscio resiste ancora l’ultimo fiato di Vita, pronto a spirare.

Ilaria Drago, con la sensibilità e la forza dell’artista versata, dà corpo ma soprattutto voce all’anima flebile di Simone Weil, quella pensatrice, poligrafa e mistica deceduta a soli quarantaquattro anni, nel bel mezzo della Seconda Guerra Mondiale.

Avvicinatasi ai testi dell’autrice grazie ai consigli di Ombretta De Biase, la Drago – attratta, dice lei, «da quei personaggi femminili che non si arrendono» – ha saputo riattualizzarli con sapienza. Fondamentali sarebbero state per lei la lettura della biografia weiliana firmata da Gabriella Fiori e le suggestioni provenienti dalle raccolte “L’ombra e la grazia”, “Sulla guerra. Scritti (1933-’43)” e “Attesa di Dio”, carteggio – quest’ultimo – d’argomento filosofico-religioso, all’interno del quale la Weil si confida con il proprio confessore e unico amico Padre Perrin, conosciuto a Marsiglia nel 1941.

«La forma che prende il concerto – recita il programma di sala – è quella di una lunga lettera, l’ultima, che si “ascolta e non si legge”»: come chiarisce l’attrice, si tratta di un’epistola di congedo, prima che la donna sia “tramutata in ali, finalmente mangiata da Dio”. Il suo interlocutore potrà udire, una volta soltanto, quel fiume carsico di parole che non fecero in tempo ad essere fissate su carta.

Simone/Drago è avvolta da un lungo cappotto sciancrato color beige. Un microfono le copre le labbra. Sta ritta in piedi, dietro lo scrittoio. Uno scrittoio 2.0, a dire il vero, in quanto ormai trasfigurato in marchingegno elettronico, simil-computer. Su di esso si adagiano pagine copiose, inclinate, fittamente solcate dall’inchiostro.

I tre nuclei tematici della performance sono il lavoro («l’uomo è solo l’ingranaggio sempre sostituibile di una macchina»), Dio e la Chiesa («come cosa sociale lontana dalla Verità») e infine la guerra. Si tratta di questioni di cocente attualità, che non possono non smuovere l’intimo dello spettatore. «Avevo scritto un testo enorme – spiega la Drago, parlando del proprio disegno registico – ma ho dovuto – con dolore – scorciarlo, rifilarlo, mantenendone solo i messaggi essenziali e più incisivi, che cerco di trasmettere in forma poetica ed emotiva». I momenti più toccanti sono di certo quelli in cui si descrivono le rovine belliche, l’inedia dei fanciulli, lo strazio di un mondo che non sembra essere mai mutato. Ma anche l’amore per il fratello o l’estasi trascendente con cui si parla del divino.

Parole, luci e suoni si fondono in un tutt’uno: parlano la stessa lingua, appartengono al medesimo codice. «Nel teatro che faccio, luce e musica non possono essere semplici sottofondi. Sono parte integrante dell’opera. Sul medesimo piano della parola».
Il sodalizio di lunga data con Marco Guidi e la collaborazione con il light designer Max Mugnai raggiungono qui un altissimo risultato: c’è un’interazione perfetta tra basi registrate e live, tra cromie e respiri. È un continuo gioco di parallelismi e contrappesi: se il tono di Simone si fa sognante, la luce diventa più tiepida; se la litania ha sapore guerresco, l’immagine diventa invece violenta, accecante. A fare da contraltare alla roca polifonia degli ingranaggi della fabbrica è la voce profonda della protagonista, che avvolge il suo uditorio in modo davvero ineguagliabile.

Ilaria / Simone (photo: Bruno Garetto)
Ilaria / Simone (photo: Bruno Garetto)

Si leva, infine, il vento freddo sulla ferraglia della stazione.
È il turno di “Ci scusiamo per il disagio”, interessante proposta della compagnia pistoiese Gli Omini, che andrà in scena domani in una serata congiunta con la rassegna Concentrica organizzata dal Teatro della Caduta.
In scena il 10 novembre alle 21, sempre al Cubo, lo spettacolo è parte del Progetto T (titolo che allude felicemente al brulicante mondo delle ferrovie), del quale Klp aveva già parlato a metà settembre con una videointervista.
Gli attori Francesco Rotelli, Francesca Sarteanesi e Luca Zacchini e la dramaturg Giulia Zacchini hanno trascorso quasi un mese alla stazione di Pistoia per parlare con pendolari e passanti d’ogni genere: ex-galeotti, studenti, clochard. E molti piccioni. «Gente che si nasconde, che tende ad essere dimenticata, gente che si guarda con la coda dell’occhio. Gente che guarda i treni passare e deve stare lontano dalla linea gialla».
Sarà bene allora mettersi in carrozza, su questo treno che corre rapido come un scheggia, per non perdere la prossima fermata!

PRIMO AMORE
Di Letizia Russo
Con Roberto Turchetta
Drammaturgia sonora e regia Michele Di Mauro
Co-produzione Cubo Teatro Torino

Visto a Torino, Cubo Teatro, il 22 ottobre 2016

stars-3.5

 

 

SIMONE WEIL concerto poetico
Testi ed elaborazione poetica Ilaria Drago
Musiche originali e sonorizzazioni Marco Guidi “Official”
Con Ilaria Drago voce-live electronics

Visto a Torino, Cubo Teatro, il 5 novembre 2016

stars-4.5

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