L’ultima volta che vidi mio padre. Chiara Guidi e il suo dramma musicale, sacro e animato

L'ultima volta che vidi mio padre - Chiara Guidi
L'ultima volta che vidi mio padre - Chiara Guidi
L’ultima volta che vidi mio padre (photo: romaeuropa.net)

Se c’è un tipo di teatro che racconta, ne esiste un altro che specula su quel racconto. Non che questa differenza stia a separare il teatro tradizionale dalla ricerca, è piuttosto un dato di fatto che questo bivio si presenti anche all’interno di ciascuna delle due categorie. È un po’ la stessa differenza che c’è tra storiografia ed epistemologia della storia. Una si preoccupa di registrare gli eventi, l’altra di analizzare le condizioni in cui quella registrazione può farsi scienza e dunque conquistare un’autonomia dall’opinione, chiudendo il cerchio della speculazione.
In un certo modo il teatro della Socìetas Raffaello Sanzio appartiene a questa seconda categoria.

Con “Flatland” di Abbott Abbott Chiara Guidi aveva compiuto un passo avanti in un’annosa sperimentazione sulla vocalità e sulla narrazione, provando che era possibile costruire una storia multilivello, che ospitava diversi personaggi usando solo la semplice suggestione visiva di un’immagine e quella sonora di una parola che metteva continuamente alla prova la natura elastica dei fonemi linguistici. Il modo di narrarla enfatizzava le “proprietà organolettiche” della storia.

Di contro all’essenzialità di quelle scelte (dimensione del reading, performer unico, pochi oggetti a far da didascalia) “L’ultima volta che vidi mio padre” è invece uno spettacolo estremamente complesso. Il sottotitolo “dramma musicale animato” è in sé già un indizio eloquente di quali saranno gli strumenti usati da questa scienza della visione. Usiamo questo termine perché nello spettacolo di Chiara Guidi niente è lasciato al caso, la potenza comunicativa di ciascun elemento, per quanto magica sia, viene usata come il principio attivo di un farmaco, della cui efficienza hanno dato prova centinaia di esperimenti.

Lo spettacolo è in parte frutto del laboratorio di ricerca vocale condotto da Guidi in diverse città italiane, nell’ambito del quale l’artista ha fatto confluire alcune idee visive e soprattutto emotive concretizzate in un montaggio di disegni animati. Su una scena di piani rialzati e ballatoi agiscono quattro interpreti più un intero coro di voci bianche, musicisti e una videoproiezione. Imperante su tutto il lavoro è l’elemento sonoro e il suo rapporto con l’immagine animata. Da un magma discontinuo di fonemi, sussurri, respiri e parole prende vita il racconto per immagini, un cartone animato grezzo e pulsante, commentato dai suoni in scena e con una musica dal vivo di violoncello e pianoforte a far da punteggiatura.
A definire i contorni di un’atmosfera rituale, propria di quelle segrete cripte votive in cui risuonano i madrigali barocco-rinascimentali, sono le sorprendenti luci di Fabio Sajiz, che plasmano il bianco delle vesti delle attrici rendendole proprie di una visione da dormiveglia. Il gioco sonoro intessuto da Guidi (che è l’unica a rimanere sempre muta) si adatta perfettamente alla sensuale ed elfica vocalità femminile, qui ruolo chiave per raccontare una storia che tutto sommato non c’è.

Quella che scorre animata sullo schermo è una fiaba dark che parla di figli scambiati, della ricerca di un padre morto e dell’inquietante presenza di una vecchia che scava fosse. Ma non c’è traccia di un messaggio chiaro. Perché quello, se c’è, resta fuori. La dinamica dell’apologo classico è stata sommersa da un rumore bianco che ne cancella i contorni, dicendoci che il segreto è altrove, all’incrocio di immagine, musica e fonema. Questo spettacolo resta il ricordo di un viaggio in una grotta sotterranea in cui lo spazio va misurato come fanno i pipistrelli, ascoltando il feedback di voci e pensieri. Al punto che forse sarebbe più interessante spezzarne la frontalità, soluzione che potrebbe far meglio fluire un ritmo a volte troppo sonnolento.
Enorme e determinante (nel senso anche meno buono del termine) è questa sperimentazione, che corre il rischio di lasciare a bocca asciutta gli spettatori che si aspettano una soluzione razionale. Ma qui trova senso il discorso iniziale: la registrazione dei fatti sonori e visivi è diventata scienza.

L’ULTIMA VOLTA CHE VIDI MIO PADRE – dramma musicale animato
soggetto, sceneggiatura e regia: Chiara Guidi
produzione: Socìetas Raffaello Sanzio, Espace Malraux/Scène Nationale De Chambery e De La Savoie, Carta Bianca – Programme Alcotra – Coopération France/ Italie, Festival Temps D’image 2009/Ferme Du Buisson/ Scène Nationale De Marne La Vallée, Regione Emilia- Romagna, Ministero Della Gioventù – Progetto Geco
disegni animati: Magda Guidi, Sergio Gutierrez, Andrea Petrucci
musica e suoni originali: Scott Gibbons
scenografia: Chiara Guidi, Giacomo Strada
interpreti dal vivo: Chiara Guidi, Alessia Malusà, Sara Masotti, Federica Rocchi e il Coro Arcobaleno dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia (direttore Claudia Morelli, pianista Giovanni Mirabile) violoncello: Marianna Finarelli
collaborazione alla sceneggiatura e ai dialoghi: Claudia Castellucci
collaborazione al montaggio video: Cristiano Pinna
disegno delle luci: Fabio Sajiz
disegno del suono: Marco Canali
registrazioni: Marco Olivieri
realizzazioni Costumi: Daniela Fabbri
attrezzeria: Carmen Castellucci
direzione di Produzione: Cosetta Nicolini
organizzazione: Valentina Bertolino,Gilda Biasini, Benedetta Briglia
durata: 59′
applausi del pubblico: 2′ 02”

Visto a Roma, Teatro Palladium, il 19 febbraio 2011

0 replies on “L’ultima volta che vidi mio padre. Chiara Guidi e il suo dramma musicale, sacro e animato”