A Romaeuropa la terza tappa del progetto “Esercizi sull’abitare”, documentario filmico con le voci live degli autori e la MaTeMusik Band
Cos’è “casa”? Questa la domanda che spinge Tamara Bartolini e Michele Baronio, accompagnati dalla figlia Thea e da una piccola troupe, ad attraversare in tutti i suoi quartieri la città di New York alla ricerca di storie di emigrati: il rapper, il parrucchiere, la giovane coppia dei sobborghi, quella che ha assistito all’attacco alle Torri Gemelle, l’imprenditore, l’emigrato di seconda generazione, la make-up artist transessuale fuggita dagli sguardi della provincia toscana.
È la New York spalancata ma spinosa, che ti accetta ma non ti vede, frenetica come la Parigi del flaneur baudelairiano; la New York che ti conforma a sé, sfida esistenzial-capitalistica, dove il “farcela” continua a certificare la condizione di uomo (sommerso o salvato?) del nostro tempo.
“6900Km_Esercizi sull’abitare #3” è innanzitutto un documentario filmato, in scena al Romaeuropa Festival. La spigliata regia è dello stesso duo romano, disponibile a pensosi rallentamenti, silenzi, ma capace anche di una narrativa concreta e di generose accelerazioni; fotografia asciutta ma accattivante.
Sui fotogrammi si inseriscono, con un effetto di richiamo allo spazio vivo della presenza, le voci live dei due autori, accompagnati dalla MaTeMusik Band: parole e note pronte a ricongiungersi col materiale filmico, per una futura vita a tutto schermo.
Solida è dunque l’impostazione, solido il mestiere, nel senso più nobile del temine. I due sanno gestire consapevolmente le dinamiche, soprattutto quelle emotive, delineare una drammaturgia degli affetti sicura e costruire un edificio che non ignora l’ironia ma che non teme di fare della lacrima l’acme e il lieto fine dolceamaro, appena prima di una chiusa in spiaggia, contro il grigiore di un livido mare.
Ma l’alternanza tra video e presenza live non è solo un espediente comunicativo cosciente di quanto la presenza fisica possa sfondare la piattezza di una fruizione solo filmica. Si tratta anche, al di là la fredda tattica dei medium, del primo segnale del premere di un universo autobiografico, di una necessità intima della coppia di raccontarsi, qui come altrove.
Oltre la domanda teorica sulla “casa” e sull'”abitare”, su cui si vorrebbe costruito il filo del lavoro, c’è infatti un bordone più ostinato che scorta il progetto con una presenza così consistente da rivelarsi di esso, poco per volta, l’autentica anima.
È vero, la questione definitoria opera come di risacca sull’architettura del testo, e ogni volta che torna a riproporsi prontamente suscita risposte incerte o accorate, poetiche, illuminate da scorci della Roma cara agli autori, quella del Pigneto, o da un passato comune. Salvo poi dare conto, un po’ sbrigativamente, delle manifestazioni per il diritto all’aborto dopo la sentenza della Corte suprema – che paiono quasi un antidoto al rischio del ripiegamento esistenziale. Ma sia questa sorta di atto dovuto che quell’attrazione inesorabile verso una serena koinè, rinfrancata dallo sguardo di chi la riconosce, tradiscono la vera natura di quel bordone di cui si diceva, l’urgenza di ritrovarsi appena possibile nel perimetro di un terreno noto, di un fazzoletto di cielo segnato dal consueto reticolo delle costellazioni di questo emisfero.
Il segnale è finalmente chiaro: questa non è la ricerca, è il ritrovarsi; non è lo spiazzamento (come quello forse banale ma di certo ruvidamente vivo di chi “molla tutto”), è un rigirio di cose conosciute, assodate, amate; è un’atmosfera – la cara vecchia atmosfera di Bartolini/Baronio. E infatti cosa sia per loro “casa”, i due autori lo sanno benissimo, ed è evidente anche per noi, quando Daniele Baronio alle chitarre, estatico, è pieno del piacere di quel presente, e si solleva leggero dal suolo; quando Tamara Bartolini sotto il profluvio di applausi, ma ancora prima, presa anima e corpo dalla musica della scena, anche lei quasi spicca il volo nella rassicurante luminosità dei suoi intermezzi vocali e dell’altra voce calda romanesca della cantante che svetta sui fiati della piccola band. È ovvio: la loro casa è il teatro.
Ecco perché “6900 Km” non è stato consegnato fin da subito all’esclusività fredda della pellicola, sarebbe stato assurdo perdere l’occasione di un momento, anche uno solo, di condivisione con i corpi dei loro spettatori, che infatti li ricompensano con un applauso lunghissimo e commosso. E se il progetto, che ha vinto il bando “Boarding Pass Plus 2021-2022”, è il terzo passo di un percorso più lungo, iniziato in tempi di pre-pandemia, quei mesi di lontananza dai palchi lo hanno segnato nel profondo, caricato, informato. Così della loro “casa” lontana, della loro nostalgia delle tavole del palcoscenico hanno sentito di dover fare un canto, che intona e ribadisce ciò che essi sono, uomo e donna di teatro, visceralmente. Quella fuga a New York è il contrario di ciò che sembra: non è l’andare fuori, lontano, per scoprire l’inaudito, è l’affondare nel piacere della propria malinconia e della propria storia. Sì, la nostalgia è un canto, non importa quante domande le si facciano, quanto si cerchi di cavare da una certezza sottopelle parole (cos’è casa, cos’è l’abitare…).
Però allora, direbbe qualcuno, quel canto, se non vuol essere solo piacere per le orecchie, deve essere tagliente, deve strozzarsi in gola. Altrimenti la disperazione si ritrova a cedere il posto allo struggimento, e la bellezza si fa richiamo, citazione della bellezza, riducendo l’affondo intimo, lirico, a un gioco di rimandi, come se la materia del canto fosse preesistente all’impulso. All’artista non è richiesta, naturalmente, la verità dell’esperienza, a nessuno salterebbe in mente di voler sradicare i due autori dai propri affetti: è richiesto però un sentire spericolato, il coraggio di auto-negarsi, di sporgersi per davvero sull’abisso.
La nostalgia di Tamara e Michele è liquida, dolente, ma ha il parapetto davanti, il loro canto è un muoversi come nel proprio appartamento, consapevoli degli anditi e degli spigoli, evitati agevolmente o sfiorati con grazia, anche a luce spenta (le Torri Gemelle, la bellezza eternamente pulita delle vecchie hippie, la metropolitana di New York e la sua fauna, la gentrification, lo skyline “visto già in tanti film”, come già Mario Soldati in “America primo amore”, 1935). Rimane assente qui ogni spostamento, nostro e loro, dall’asse su cui più o meno felicemente insistiamo, nella nostra rassicurante ma angusta cartografia di riferimenti.
6900Km_Esercizi sull’abitare #3
Un progetto di Bartolini/Baronio
Curatela Valeria Orani
Di e con Tamara Bartolini e Michele Baronio
Con la partecipazione dal vivo di Sebastiano Forte
e della MaTeMusik Band dello Spazio Giovani e Scuola d’Arte MaTeMù/CIES
Collaborazione artistica, missaggio, suono live Michele Boreggi
Collaborazione artistica, operatore di macchina, direttore della fotografia, tecnica live Marco D’Amelio
Operatrice di macchina Ginevra Amato
Operatore, musiche originali Michele Baronio
Drammaturgia Tamara Bartolini
Regia e montaggio Bartolini/Baronio
Comunicazione e identità visiva Margherita Masè e Elisa Pescitelli
Immagine grafica progetto Raffaele Fiorella
Direzione di produzione Alessia Esposito
Organizzazione Elisa Pescitelli
Mediazione culturale residenza New York Laila Petrone
Produzione 369gradi e Bartolini/Baronio
Coproduzione Off Ostia Film Factory
Con il sostegno di Romaeuropa Festival, A.T.C.L. Associazione Teatrale fra i Comuni del Lazio, Umanism
In collaborazione con Scuola d’Arte MaTeMù/CIES
In partnership con Istituto Italiano di Cultura di New York, Festival InScena, Calandra Institute CUNY, La MaMa Experimental Theatre
Con il sostegno del Ministero della Cultura, progetto vincitore del bando “Boarding Pass Plus 2021-2022”
durata: 1h 15′
applausi del pubblico: 5′
Visto a Roma, Romaeuropa Festival, il 26 settembre 2022