
Maïmouna Gueye non è da confondere con una moderna amazzone dalla pelle nera. Lo sguardo è duro, certo, come quello di tutte le donne senegalesi. Consapevolmente irato, eppure composto, serio e, anche quando si accende, cauto. Femminista, direbbe qualcuno in senso spregiativo – sicuramente qualche suo connazionale – ma la sua eleganza annulla immediatamente il dubbio, vinto dalla principesca légèreté di una gazzella. Con i suoi grandi occhi vede tutto e dice tutto, a tutti.
Autrice dei suoi testi, è una narratrice eccezionale, capace di catturare e mantenere viva la soglia di attenzione per più di un’ora di monologo. Commuove e diverte con la medesima intensità. E le sue lacrime si confondono con quelle di chi, a pochi metri di distanza, ne segue i movimenti.
Lo spazio scenico è dominato dalla snella figura, completamente vestita di bianco; solo le spalle nude sotto i lunghi capelli intrecciati. A tratti diva anni Cinquanta – così la descrivono alcune scelte musicali – a tratti cantastorie, che non racconta però favole e neanche fiabe, come ripete più volte, ma storie di vite vere.
La sua e, in una tragica continuità, quella di altre donne che potrebbero essere lei. L’accento ‘négride’, impeccabilmente enfatizzato, accompagna la storia di Bambi, nome scelto dai genitori dopo avere visto
l’omonimo film alla televisione. Scatola magica che porta nelle ex-colonie il mito di Madame la France e induce i padri a partire dopo la lunga attesa dei ‘papier’. Solo una lettera, dopo dieci anni, e l’invidia delle pettegole del villaggio che hanno visto le madri congelarsi: non più corpi, né desiderati, né desideranti. Fantasie di felicità che subdolamente s’insinuano nell’immaginario delle fanciulle e producono sogni oltremodo simili a quelli dei ‘toubab’, gli stranieri. Inaccettabile. Come la magrezza, d’altra parte, che tanto piace agli uomini bianchi. E allora meglio farsi visitare da una ‘marabout’, una strega, che impietosa pronuncia la sentenza: «Tua figlia sposerà un francese», uno con gli occhi blu e le orecchie rosse – un vero uomo di colore. E’ lui, «Antoine, mon amour», figlio di una coppia di borghesi conservatori dell’Auvergne che, nel presentare la nuora al paese, annunceranno: «Ecco il regalino che nostro figlio ci ha portato dall’Africa. E’ nera, però è bella».
Convinta del suo amore, tuttavia, Bambi continuerà a sorridere, anche quando il marito non crederà più che lei lo ami veramente; anche quando a denti stretti compiacerà la suocera-arpia, capace solo di offrirle banane.
Perdonabili, affettuosi moti di micro-razzismo inconsapevole? Non quando il sapore del frutto si confonde con un altro, che dolorosamente evoca la prematura nascita del desiderio alla luce di una luna maligna. La stessa luna che assiste alla morte di Nouba, violentata con una bottiglia, e mai perdonata perchè presumibilmente ubriaca e uccisa da un non musulmano.
E’ complicato stare tra due mondi, bisogna scegliere. E Bambi lo sa. Sin dal tempo della scuola, quando il testo di un dettato chiariva molto bene la differenza: il nero è il colore della polvere, il
bianco quello delle nuvole. Come si fa a non desiderare il cielo?
La caduta tuttavia non è fatale per Maïmouna e le altre, anzi. Ferocemente ironica, quando il suo anello nuziale si frantuma sotto il peso di una folla di estranei, di altri che sono davvero l’inferno, a quel punto la donna si alza e comincia a camminare, da sola. E nella solitudine continua a camminare, non nei prati, come il suo viscido maestro di francese avrebbe voluto, ma nel metrò, fino a quando incontrerà i piedi di uno sconosciuto: Pampan. E con lui sarà di nuovo il desiderio.
L’ultimo tratto di strada di Bambi verso l’identificazione di sé si rivelerà così attraverso un crescendo comico che non vogliamo svelare. Fino alla “risoluzione” finale. Et voilà l’intégration!
Bambi, elle est noire mais elle est belle…
di Maïmouna Gueye
regia e disegno luci: Jacques Allaire
video: Scorpene Horrible
costumi: Myriam Drosne
produzione: Scène 2 – Le Tarmac de la Villette di Parigi
traduzione e testo dei sovratitoli: Gaia Bastreghi a cura dell’Accademia dei Filodrammatici
durata: 1 h 10′
applausi del pubblico: 1′ 55”
Visto a Milano, Piccolo Teatro – Teatro Studio, il 7 settembre 2009
Tramedautore 2009