
Ci sono spettacoli che minano l’autostima di chi vi assiste. Una carrellata di nomi, di credits, di referenze, di anticipazioni, di presentazioni pompose e, di conseguenza, di aspettative destinate a risolversi, qualche volta, in un nulla di fatto.
E allora lì ad interrogarsi sulle proprie “doti”: mi è forse sfuggito qualcosa? Non mi sono preparato abbastanza? Dovevo documentarmi meglio e ricostruire a ritroso tutto il curriculum dei performer dato che, evidentemente, dalla cartella stampa non ho saputo trarne granché? Mi sto scontrando con un mio limite culturale, o peggio, esistenziale? Allora forse non sono nemmeno degno di scrivere su una rivista…
Bah’. La verità è, forse, che certe pretese spettacolari, anche se sviscerate ed interrogate da tutti i punti di vista, non hanno davvero nulla da raccontare. Rimangono esibizioni fini a se stesse e pronte ad essere dimenticate. Poco male, mi verrebbe da dire, nel senso che fa parte delle regole del gioco. È un azzardo da correre quando si fa ricerca, quando si sceglie di presentare uno studio invece che uno spettacolo completo e rodato.
È insomma un nobilissimo rischio che tutti quelli che lavorano onestamente, senza cercare di vendere fuffa, devono correre, coerentemente e lucidamente. Ma il rischio ovviamente comporta delle conseguenze, come quella di deludere o fallire. Soprattutto se c’è la sensazione che di aria fritta ce ne sia davvero molta.
L’InteatroFest di Polverigi (AN) è un festival di arti performative dalla storia più che consolidata, visto che dal 1977 si pone come coraggiosa vetrina di arte contemporanea, come cantiere aperto e residenza creativa, fornendo a compagnie provenienti da tutto il mondo supporto, appoggio e, qualche volta, un alibi.
Lì, in una full-immersion di due giorni, fagocito cinque spettacoli di diverso genere, animata dalla solita curiosità vorace: uno mi travolge, uno mi titilla, uno mi stimola, tutti mi “danno” qualcosa. Il merito è, in parte, anche della personale predisposizione, che ha reso il mio sguardo (un mix di occhi-orecchie-pelle-pori-cervello e cuore) disponibile. Insomma, tutti gli spettacoli dell’InteatroFest hanno un loro perché. Eccetto due, che trovo, senza giri di parole o moti di pietismo, inutili.
Allora provo a cambiare le carte in tavola, perché se Maometto non va alla montagna, dopotutto è la montagna che va da Maometto. Se queste esibizioni non mi hanno restituito davvero nulla, penso, allora forse sono io che devo fare uno sforzo in più per arrivare a “prendere” qualcosa da loro, tanto più che gli spettacoli in questione sono proprio quelli su devo scrivere.
Non mi è mai capitato – o quasi mai – di non riuscire a cogliere uno straccio di senso, di necessità, di urgenza (parola molto amata dai teatranti), di godimento o suggestione da uno spettacolo. Eppure stavolta niente di niente, solo noia mortale. Mi confronto anche con la Maria che, con le idee molto più chiare delle mie, liquida le sue sensazioni a riguardo con una sarcastica “fucilata nei coglioni”.
Gli spettacoli in questione sono, ahimè non posso esimermi, “Andless” e “Barok”.
Il primo è di e con Daniele Albanese. Il “performer coinvolgente e provocatorio – cito dalla brochure del festival – ci fa dono di un assolo che, sulle note di Bach, si interroga sulla natura stessa dello spettacolo, sul suo indissolubile legame con il tempo e con la vita”.
A parte il fatto che più che Bach a fare da colonna sonora è il rumore di una moka prossima a sputare caffè, ma va bene lo stesso, mi chiedo: in che cosa consiste la ricerca fatta attorno all’interrogativo annunciato nel programma? Cosa avrebbe dovuto indagare l’interprete e cosa lo ha spinto ad esibirsi di fronte ad un pubblico pagante? Come possiamo noi, poveri mortali, riconoscere lo spirito alto della sua ricerca se questa non ha il benché minimo corrispettivo nel lavoro presentato? Senza voler essere didascalici poi, Dio ce ne scampi.
Ma al di là della pertinenza o meno rispetto a quanto anticipato nella brochure, che tutt’al più comporta delle aspettative deluse, non trovo nemmeno una godibilità, un guizzo, un estro o una suggestione.
Poco diverso il discorso per “Barok” della compagnia Barokthegreat di Forlì. Uno spettacolo di Leila Gharib e Sonia Brunelli che vede quest’ultima anche impegnata sul palco.
A parte un inizio davvero promettente ed ipnotico, che inchioda alle poltrone in stato di trepidante attesa, lo spettacolo – che si ispira all’arte informale, per eccellenza barocca – si risolve in una monotona performance di 35 minuti. Non riesco a far altro che ammirare i movimenti sinuosi della performer, ma esattamente come avrei fatto nel vederla fare training la mattina presto in sala prove. A dirla tutta sembra calata in una sorta di trance in cui l’esistenza del pubblico non pare essere un elemento contemplato. Va quindi bene il costume che esalta le linee del gesto, va bene il volto celato dalla maschera fluo che crea l’effetto ragazza-insetto coi colori del merlo, va bene il crescendo di note elettroniche, ma poi? Nemmeno il ricco apparato informativo di cui la compagnia dispensa il pubblico serve a un granché, se non a confondere.
Certo, anche se la semplicità è una dote vincente, uno spettacolo può indubbiamente essere apprezzato nonostante richieda una fruizione più complessa. Non mi lascio spaventare dai voli pindarici, non rifiuto a priori l’intellettualismo o l’esubero di attenzione necessaria, ma come minimo pretendo di essere risarcita con una qualche forma di godibilità, anche a posteriori, di cuore, sensi o cervello. O che almeno mi scalfisca un po’, arricchendomi. Rifuggo invece le esibizioni fini a se stesse, elucubrazioni narcisistiche che si nascondono dietro l’alibi della ricerca.
Ognuno è chiamato ad assumersi le proprie responsabilità. Lo faccio anch’io per le parole spese.
Siccome però sono una persona estremamente possibilista, imploro un’altra chance, rivolgendomi umilmente a tutti quelli che, avendo assistito agli spettacoli in questione, ne hanno colto i segreti, le possibilità e gli arcani come non ho saputo fare io. Lasciate un segno, un commento che possa rischiarare il mio semplice ed evidentemente limitato punto di vista. Facendomi, magari, cambiare idea.
Andless
di e con Daniele Albanese
luci: Deborah Penzo
musica: Marco Monica
con il sostegno di InteatroPROD nell’ambito di Scenari Danza 2.0
durata: 20′
applausi del pubblico: 36”
Visto a Polverigi (AN), Teatro della Luna, il 3 luglio 2009
Barok
di Leila Gharib e Sonia Brunelli
con: Sonia Brunelli
produzione: Barokthegreat, Sonia Brunelli/Fies Factory One, Grand Theatre di Groningen, Sujet à Vif SACD/Festival d’Avignon 08, centrale FIES_in collaborazione con Area Sismica, Teatro Stabile di Verona,
vincitore di Nuove Creatività con il supporto di ETI Ente Teatrale Italiano
si ringrazia Simon Vincenzi
durata: 35′
applausi del pubblico: 1′ 08”
Visto a Polverigi (AN), Teatro della Luna, il 2 luglio 2009
Io non ho visto gli spettacoli in questione..ma questo articolo mi ha molto colpito. In parte approvo questo approccio cosi lucido e volutamente critico che mette in risalto sicuramente una delle problematiche che oggiogiorno deve porsi chi fa spettacolo…è anche vero pero’ che ogni contesto ha un proprio perchè. Se parliamo di danza di ricerca non possono che aprirsi molti interrogativi e parliamo di durate di spettacoli che presentati appunto come work in progress o studi non superano magari i 30-35 minuti.
Mi chiedo allora come faccia un aspirante coreografo ad esprimersi in maniera coerente in cosi poco tempo, e se è vero che il pubblico ha le sue aspettative fin dove arriva la libertà dell’artista?
D’altra parte non ci si puo’ definire coreografi in età ancora giovane e dunque solo per questo un giovane non potrebbe portare il proprio lavoro in scena?
nel bene e nel male credo che troppa tolleranza faccia ssolutamente male, ma credo anche che dobbiamo lasciare spazio anche a chi intende fare questo per mestiere, senza negargli la possibilità di mettersi in discussione e chissà forse un giorno da quegli artisti uscirà un grande capolavoro…magari a 70 anni..non so…
E la signora Lucia c’era? Che dice? I tuoi Reportage barok-esistenziali, Spogli di parrucche e naftalina tipici della pallosa critica italiana over settanta sono una goduria assoluta. Speriamo tu possa continuare a vedere solo roba terribile per regalarci le tue cronache alla molly bloom. Sulla via per Armunia mentre la retta via si fa tornante. Un saluto.
condivido, non tanto per gli spettacoli citati che non ho visto, ma proprio per questa sempre più quotidiana abitudine di proprinare tanto fumo e poco arrosto.
E’ un po’ come se tutto si limitasse alla confezione.
Triste, no?
danza di ricerca, teatro di ricerca, musica di ricerca.
io vado a teatro e guardo un esperimento, cioè il frutto di un percorso di ricerca di un gruppo, una compagnia, un artista, anzi, vedo a che punto è la sua ricerca. lo spettacolo, o studio, o episodio dovrebbe essere sempre accompagnato allora da una spiegazione per il pubblico, in cui si dice come si è arrivati a sperimentare questa cosa, spesso invece l’intellettualismo imperversa nei fogli di sala. e chi è il pubblico in questi spettacoli? che ruolo gioca? solitamente un intruso che spia dentro gli alambicchi del laboratorio senza nulla comprendere, eppure paga un biglietto, e spesso neppure economico.
io credo che il nocciolo della questione sia una mancanza di chiarezza. c’è ricerca e ricerca. c’è spettacolo e spettacolo. credo che romeo castellucci abbiamo ricercato per anni ma ora possa anche consolidare il frutto della sua ricerca, tanto per fare nomi conosciuti.
condivido spesso il tuo stesso smarrimento, il senso di sentirsi tenuti fuori da un gioco riservato a pochi.
personalmente il percorso che sto facendo tende ad evitare per quanto possibile il ruolo “censore” della critica teatrale e tornare a un assetto a specchio che rifletta (in entrambi i sensi) che cosa ci sia o manchi nello spettacolo, che cosa lo separi da un’opera magari non perfetta ma almeno sincera.
ma, come ho detto, “per quanto possibile”. Certe volte ci si trova davvero come una zattera alla deriva…
ti capisco.
teniamo duro.
un compagno di redazione
Una delle massime più note di Wittgenstein è che “tutto quello che si può dire lo si può dire chiaramente”. Ho sempre pensato che la sua validità e dunque il suo valore prescrittivo non siano limitati alla sola comunicazione intellettuale alla quale evidentemente W. si riferiva, ma riguardino anche i contenuti e i mezzi espressivi del “dire” artistico.
http://www.teatro.org/spettacoli/recensioni/fies_factory_one_13314
(…..)La prima serata ha visto in programma Barok di Sonia Brunelli (coreografia) e Leila Gharib (musiche), una coreografia intensa e interessante già presentata al Grand Theatre di Groningen (Olanda).
La coreografia parte da una spazializzazione del suono, in un ambiente prima buio (illuminato solo da una tenuissima luce blu) e poi con una luce diffusa e bianca, in uno spazio astratto, a-sceografico, ottenuto con delle quinte nere, nel quale la coreografa-danzatrice, vestita di una tuta nera che le copre anche il volto (coperto da un tessuto rosso semitrasparente) reagisce all’assenza (prima) e alla presenza (poi) di un rumore, poi, che diviene via via suono e poi musica.
La reazione coreutica della danzatrice è interessante perchè non segue la via semplice della risposta ritmica o a-ritmica al suono, ma traduce la musica nelle possibilità espressive lineari del corpo umano, in maniera del tutto autonoma e sganciata dalla logica della corrispondenza ritmica tra musica (rumore, suono) e movimento, trovando un legame e una corrispondenza più profonde proprio nella contraddizione che si forma tra suono e movimento, tra musica e danza.
Una coreografia da ferma che vede Sonia Brunelli usare il busto e le braccia come strumenti della danza (di profilo, di fronte, piegandosi, diritta in piedi, sdraiata supina). Una coreografia ipnotica, apparentemente semplice che, invece, oltre a una ricerca coreutica notevole richiede anche un alto grado di performatività all’interprete (…..)
(…) La prima serata ha visto in programma Barok di Sonia Brunelli (coreografia) e Leila Gharib (musiche), una coreografia intensa e interessante già presentata al Grand Theatre di Groningen (Olanda).
La coreografia parte da una spazializzazione del suono, in un ambiente prima buio (illuminato solo da una tenuissima luce blu) e poi con una luce diffusa e bianca, in uno spazio astratto, a-sceografico, ottenuto con delle quinte nere, nel quale la coreografa-danzatrice, vestita di una tuta nera che le copre anche il volto (coperto da un tessuto rosso semitrasparente) reagisce all’assenza (prima) e alla presenza (poi) di un rumore, poi, che diviene via via suono e poi musica.
La reazione coreutica della danzatrice è interessante perchè non segue la via semplice della risposta ritmica o a-ritmica al suono, ma traduce la musica nelle possibilità espressive lineari del corpo umano, in maniera del tutto autonoma e sganciata dalla logica della corrispondenza ritmica tra musica (rumore, suono) e movimento, trovando un legame e una corrispondenza più profonde proprio nella contraddizione che si forma tra suono e movimento, tra musica e danza.
Una coreografia da ferma che vede Sonia Brunelli usare il busto e le braccia come strumenti della danza (di profilo, di fronte, piegandosi, diritta in piedi, sdraiata supina). Una coreografia ipnotica, apparentemente semplice che, invece, oltre a una ricerca coreutica notevole richiede anche un alto grado di performatività all’interprete.(…)
Sonia Brunelli entra in scena. Il suo corpo è nascosto da una tuta nera e da una maschera rossa che le copre il volto. Sullo sfondo una luce azzurra. La danzatrice inizia a scuotere il suo corpo come fosse una line; piano la luce azzurra si dilata, diviene un recinto bianco, una stanza luminosa e bi-dimensionale. In questo spazio la coreografia dell’artista si dovrà esaurire, ibridandosi con il gelido suono, macchinino e meccanico, come battito cardiaco nella reiterazione del gesto sempre contraddittorio. Sullo sfondo, l’ombra del corpo della Brunelli (s)doppia le linee create dal suo movimento. C’è un baratro tra l’agire impulsivo di questo corpo e le linee che si vengono a creare. Movimenti non corrispondenti alla propria ombra, scomposizioni inquietanti del corpo, che disorientano lo sguardo dello spettatore in una dimensione ipnotica, che ricordano a tratti il tormento di Rosas danst Rosas della coreografa Anne Teresa di Keersmaeker, ma che divengono altro innalzandosi nella atmosfere allucinogene e inquietanti della luce.
Sonia Brunelli, come già in NN, A NN A e A NNN A continua a lavorare sulla reiterazione del gesto, sulla sua negazione, sulla sua liberazione dal senso, immergendolo questa volta in una visionarietà oscura, disumana raffigurazione di devianza. Costruzione di un immaginario nato con la collaborazione della musicista Leila Gharib dal cui incontro nel 2008 nasce il gruppo BAROKTHEGREAT.
Ed è anche grazie alle musiche, che Barok attrae lo spettatore conducendolo in una dimensione fragile, terribile e luminosa allo stesso tempo. Fino a quando le luci non sfumano nuovamente nell’azzurro e il corpo di Sonia Brunelli, ombra della sua stessa ombra, linea nera, scompare, immerso nel buio.
Solo alcune riflessioni:
che il teatro di ricerca e la danza di ricerca possano allontanarsi troppo dal pubblico questo è un pericolo.
d’altra parte siamo nell’era dell’intrattenimento e se qualcosa cerca oltre questo forse è un bene-a
Anche non amando questo genere queste presenze possono fare bene un po’ a tutto il teatro.
inoltre come in letteratura esistono molti generi, un poeta non può essere letto da chi cerca il romanzo o il best seller e non può essere neppure criticato nello stesso modo.
mi pare quindi ci sia molta confusione nelle tue parole e pure nel tono – molto contemporaneo.
Conosco il lavoro di entrambi gli artisti.
Apri alcune problematiche su studio-spettacolo ,ecc…non ci dimentichiamo che ci sono dinamiche che esulano dagli artisti,anche loro credo si barcamenino come possono in un ingranaggio che spesso non li sostiene davvero ma li presenta in modo non conveniente a nessuno.Non è detto che possano rifiutare, come spesso sento.Quindi attenzione-ancora una volta al tono -molto d’effetto ma poco vero. Utile a creare confusione.
Il tono inonltre credo si scontri con un fatto che si ritrova nel tuo testo.Dici di non essere avvezza a questo genere e di non conocere questi artisti,sono entrambi molto noti nell’ambito della danza di ricerca…quindi sei tu a essere fuori luogo.Per carità tutti possono esprimere quello che vogliono ,è chiaro ,diciamo che questa critica così aggrssiva, dovrebbe avere altrettanta professionalità e invece per sua stessa ammissione ne è totalmente mancante. Quindi si forse troppa ricerca fa male,ma sicuramente fa peggio troppa cialtronaggine sbattuta con aggressività, in stile televisivo-non ne so nulla ma dico ,poichè posso, che mi fa schifo…brava!
Concludo- c’è molta confusione, nei festival, nelle presentazioni, nella registrazione dgli ambiti, nei critici che fanno gli operatori…nelle critiche scritte da chi non è competente….ma ecco…anche questa critica è completamente all’interno di questo sistema confuso, non ne esce in nulla.
Pensaci.
non avevo letto il passaggio sulla musica che assomiglia a una moka prossima a sputare caffè- mi spiace aver scitto il commento precedente così lungo e articolato, sei solo un’ignorante.Ma è proprio grave che tu possa scrivere. Davvero un fatto grave.Complimenti
Il punto è, cara Alessia, che queste cose le scrivi perchè te le fanno scrivere. In merito ad ANDLESS, inoltre, dimostri di non avere le basi per decodificare un benemerito cazzo. Decodifichi però il rumore della moka. Di coreografia, movimento, danza tu non ne sai nulla e infatti non dici nulla. Se un tipo di ricerca analogo l’avesse presentato la Castellucci jr o altri del circolo degli eletti, non avresti scritto quello che hai scritto.
Lo sappiamo entrambi. Non potevi scrivere le stesse cose.
Studia e vergognati.
Gent.ma Alessia,
Le scrivo firmandomi con nome e cognome poiché – per chiarezza di chiunque legga – deve essere palese in premessa che ho la fortuna (sottolineo: la FORTUNA) di conoscere da vicino il lavoro di Daniele Albanese e di avervi preso parte. Posso quindi sostenere con citerio che Daniele porta avanti da molto tempo un percorso di pensiero complesso ed estremamente lucido sulla propria poetica, e che la parola “ricerca” – per quanto spesso abusata – nel suo caso è tutto tranne che un alibi. Sono stupita anch’io che Lei non conosca almeno nominalmente i soggetti di cui parla, ma in questo caso informarsi è decisamente semplice, nonché doveroso. Sono convinta che la frammentazione dei linguaggi della contemporaneità possa causare smarrimento negli spettatori, ma questo rende ancora più grave la mancanza di un sostegno critico informato, competente e soprattutto AL SERVIZIO degli spettatori e degli artisti. Qui siamo al paradosso assoluto per cui un artista si ritrova spesso a dover compiacere le mancanze culturali, intellettuali e percettive di chi dovrebbe “consacrarlo”, anziché proporre una visione radicale e coerente. In teoria. In pratica, chi ha ragioni fondate per continuare il proprio lavoro lo fa comunque, per fortuna. Anche di fornte a chi non è in grado di decodificare i segni più essenziali della pertinenza scenica. Certamente la danza richiede una conoscenza approfondita per essere “letta” (non più di quanto non lo richieda a tutt’oggi un quadro di Kandinsky), ma anche in assenza di mezzi per apprezzare la qualità della semplice dinamica del movimento, la Sua esposizione manca del più elementare sguardo di base per capire cos’abbia di fronte. Un esempio su tutti: in “Andless” lo scorrere del tempo – tra le altre cose – è determinato dal quadrato di fari che fannuo ruotare la luce in senso orario intorno al danzatore, compenetrando lo spazio che occupa. Non mi pare ci voglia un genio per capire che significa. In definitiva, se Lei vuole assumersi realmente la responsabilità di ciò che sostiene, dovrebbe quantomeno essere conscia di quanta ulteriore confusione crea una “recensione” scritta e pubblicata in nome del nulla. In questo caso si che possiamo parlare di “elucubrazioni narcisistiche” da parte di “critici” che non si preoccupano di lesinare parole irrispettose e sguaiate nei confronti del lavoro degli artisti, peraltro per dichiarare con soddisfazione la propria cecità. Questo si che mi risulta incomprensibile. Come si può valutare, anche negativamente, qualcosa che non si riesce a penetrare? E che motivo c’è di essere tanto orgogliosi della propria ignoranza? Questo genere di commenti, in definitiva, non tolgono e non aggiungono alcunché al lavoro artistico, mentre dicono moltissimo sul conto di chi li scrive. Dubito fortemente che questo possa interessare qualcuno. In ogni caso c’è di peggio: c’è anche chi non dichiara la propria incompetenza e scrive fingendo di capire, anche se è un gioco che dura poco. Quale che sia l’esito di un percorso, il rispetto nei confronti del lavoro dell’artista è d’obbligo. Parole come “fuffa” o “fucilata nei coglioni” non servono a nessuno. Si possono serenamente pronunciare in compagnia della Maria nella cucina di casa propria, ma sparate sul web risuonano solo volgari, stupide, inutili.
Carissimi artisti (e affini)…
accogliamo con gioia la vostra levata di scudi a difesa dei due lavori qui trattati e vi invitiamo a proseguire, ma urgono (anche noi abbiamo le nostre, di urgenze) alcune precisazioni:
1. brick100 e Mav71 – Il margine di dissenso ha un unico limite ma ben definito: quello dell’offesa personale.
2. Mav71 – Ti sbagli, in più di un’occasione abbiamo scritto opinioni negative su alcuni lavori presentati da quello che tu chiami “il circolo degli eletti”.
3. Loredana – La “fuffa” e le “fucilate nei coglioni” si inseriscono in un contesto nel quale, forse, con un pizzico di autoironia in più, risulterebbero più “digeribili” e collocabili secondo il loro reale significato: frustrazione da spettacolo deludente e noioso. Non ci sembrano, inoltre, più fuori luogo di quanto non lo siano certe pretenziose (indipendentemente dalla “pertinenza” e genialità del lavoro proposto) presentazioni a corredo di uno spettacolo (vedi la parte di articolo in cui si cita il “performer coinvolgente e provocatorio…” che “ci fa dono di un assolo…” ecc… ecc…).
Infine, ci scusiamo e ci autoflagelliamo per la nostra cattiva creanza nel volerci ostinare a pubblicare opinioni “dal basso”, frutto della nostra povertà di strumenti decodificativi. La vostra critica è sicuramente uno sprone a “STUDIARE” ed acquisire sempre più elementi (questo riguarda anche tutto quel pubblico pagante che quotidianamente trae da certi lavori “artistici” lo stesso senso di avvilimento descritto da Alessia – vedi anche alcuni tra i commenti a questo post)… Tutto ciò per evitare di cadere ulteriormente nella blasfemia di parlare di Kandinskij senza possederne gli strumenti. Peccato, proprio oggi che stavamo per aprire un blog sull’astrattismo!
Purtroppo quello che dite è fuffa. Se l’arte in Italia non respira più, è anche colpa del giornalismo becero e interessato. Come il vostro. Invece di autoflagellarvi dovreste smettere di scrivere o continuare a farlo seguendo una vaga onestà intellettuale.
Gent.mi,
grazie della risposta illuminante.
A questo punto farò un altro paio di precisazioni:
– il mio post non si erge a difesa di nessuno, dal momento in cui non ritengo che il lavoro di Daniele ne abbia bisogno. Semmai non posso condividere alcun tipo di atteggiamento arrogante e qualunquista.
– concordo pienamente con quanto dite sul margine del dissenso e aggiungo che, nel linguaggio come in arte, la forma è sostanza. La modalità “simpatica” con cui descrivete gli eventi non ha nulla a che vedere con l’ironia (non raccolgo la provocazione sulla parola “autoironia”) ma piuttosto con un malcostume caciarone che va tanto di moda. Applicata con tanta leggerezza al lavoro di un artista è ben più offensiva di tante altre espressioni, più o meno colorite.
Per carità, l’errore è mio: ho risposto seriamente perché credevo che questa fosse la vostra richiesta, non avevo inteso di trovarmi in mezzo a una chiacchiera da bar. Qualcuno dev’essere inciampato nello stesso equivoco, dato che Merula e Romano hanno fornito un’opinione puntuale.
Per quanto concerne la vostra “ostinazione” a pubblicare commenti “dal basso”, credo che questo sia già implicito in tutti i post che sono stati fatti dai lettori. Dico lettori perché non posso che soprassedere su chi dichiara “io non ho visto lo spettacolo, ma….”. Io non ho visto lo spettacolo della Brunelli, e infatti non ne parlo. Da parte vostra, invece, mi aspettavo qualcosa di più che non il rimando del malumore del pubblico. Farlo vostro sa un po’ di populismo, nell’accezione più bassa e misera del termine. Tutti si sentiranno parificati in questa inadeguatezza e pace intellettuale sarà fatta. E’ un meccanismo un po’ datato, ma lo vediamo funzionare quotidianamente, no? Ognuno può valutare da sé gli effetti di questo atteggiamento, personalmente ho ancora abbastanza fiducia nell’intelligenza delle persone da non volerla svilire con questi trucchi.
Ripeto: errore mio. Continuo a pensare anche, con poca “autoironia”, che non tutti possono fare tutto. Che le persone che si occupano di cultura si procurino i mezzi e cerchino almeno di capire. Che il fruttivendolo sia lì per vendermi mele e non elettrodomestici. Che un’operazione a cuore aperto venga fatta da un cardiochirurgo e non da un barbiere.
Molto prosaicamente, continuo a desiderare che l’ambito in cui ci muoviamo venga trattato un po’ più onestamente e non preso a morsi dal “bla bla” generico di chiunque. E’ una richiesta tanto assurda?
Evidentemente si. E’ chiarissimo che questa non è la sede giusta per soddisfare la mia piccola esigenza, per cui non vado oltre. Non è di alcuna utilità (se non per il vostro sito) continuare una discussione su presupposti non condivisi. Quasi inesistenti, in questo Paese. Peccato, abbiamo perso tutti un’occasione.
Ma Loredana, un quesito: noi della solita Italietta, come facciamo anche solo ad avvicinarci a cotanta natura artistica? Ma non è che ogni tanto, in voi artisti, c’è un po’ troppa boria? Comunque viva i fruttivendoli, che forse un po’ più umili lo sono…
Caro o cara Dadi (perdona l’approssimazione di genere, ma dato che non ti firmi per esteso…)
lungi da me recensire. Grazie al cielo, non è il mio mestiere e lo lascio volentieri ad altri. Ovviamente ho un’opinione, ma non mi pare che possa interessare davvero e quindi me la tengo serenamente per me. Quindi, se ti capita, vai a vedere questa cosa e giudica da te.
Per il resto, idem come sopra: pongo un’obiezione motivata e senza offendere nessuno e ottengo in cambio una battutaccia. Credo che si commenti da sé. Quanto all’umiltà, è decisamente una dote indispensabile per chi lavora in scena. La sottomissione all’arroganza e all’ignoranza è tutt’altra faccenda.
Gent.ma Sig.ra Raccichini,
Lei invita a “lasciare un commento”, a chiarire il suo “semplice e limitato punto di vista”.
La mia ragazza mi ha chiesto di farlo, nonostante non lo ritenessi opportuno: se invita alla discussione dopo il nulla che traspare dalle sue righe deve averne un ritorno che non comprendo.
Comunque, spero di esserLe utile (come chiede) al contrario del suo articolo che non è servito agli utenti “paganti” che avrebbero preferito – almeno quelli interessati alla danza – una intervista agli artisti da Lei giudicati, magari da pubblicare prima degli spettacoli.
Mi attengo alle sue domande.
Lei inizia da “Andless”, e da li inizio io.
Premessa: un paio di millenni or sono qualcuno disse che “è l’intelligenza che vede, è l’intelligenza che ode, tutto il resto è sordo e cieco”.
Dunque se Lei non ha avuto guizzi o sentito pathos, un motivo ci sarà! Per cercare qualcosa bisogna conoscerla. Ha presente l’episodio della “cadrega” di Aldo, Giovanni e Giacomo (qui lo può trovare su youtube qualora non lo conoscesse: http://www.youtube.com/watch?v=XqmTdtoCmEs . Lo guardi è davvero simpatico). Come può Aldo prendere la “cadrega” se non sa cosa sia? Ecco questo è il vero problema.
Comunque le dico le mie di sensazioni:
1)Lei si interroga sulla ricerca fatta da Albanese su “spettacolo, tempo e vita”. Nulla mi sembra più chiaro che studiare il tempo sui quadranti di un orologio: ha presente quei fasci di luce che roteavano sulla scena? Ecco quella era una delle prime “godibilità”, “estri” che io ho percepito.
Lei ha mai sentito parlare di S. Agostino? Egli chiamava il tempo “il fiume nel quale gli eventi accadono, compaiono ed il momento successivo scompaiono”. Ha presente il performer che entra ed esce dal fascio di luce? Bene, questa era un’altra suggestione!
Mai sentito parlare di Newton? Di un “tempo assoluto che dava ritmo al cosmo ed alla vita” e restava impresso sul corpo, e come lo spazio era “determinato”? ha presente l’area di luce delimitata sulla scena (molto più ampia) e le variazioni dell’architettura della danza operata dal coreografo? Quelle erano altre suggestioni ancora. Potrei continuare, ma non voglio affaticarLa.
Forse questo e/o altro ancora è stato indagato da Albanese, ma grazie a Lei, che non lo ha intervistato, non lo sapremo. In ogni caso queste sensazioni mi sono state suggerite dallo spettacolo di Albanese grazie alle mie conoscenza: certo io avevo letto qualcosa su internet su di lui ed i suoi spettacoli. Diciamo che ero “aggiornato”. Avrebbe dovuto farlo anche Lei. Capisco che le esigenze di “cassetta” dei giornali, e la tariffa del vostro ingaggio (ho amici giornalisti che me ne parlano) vi impongono di risparmiare su benzina, alberghi e biglietti, ma uno sforzo in più di professionalità alla fine ripaga: si diventa “professionisti”. Pensi se la Gabanelli, Biagi, Montanelli o Pansa si fossero limitati a commentare una brochure o la collega “Maria”.
Infine la carenza che lei ammette anche circa la conoscenza al riguardo della danza non devono indurLa a pensare che “non ci sia un corrispettivo nel lavoro presentato”. Essendomi informato (come le dicevo prima) su Albanese ho avuto modo di constatare che egli ha conoscenze anche nel campo delle neuroscienze (è stata una piacevole sorpresa per me che insegno anatomia all’università e sono dottore di ricerca in neuroscienze). Ma spiegarLe che mi è sembrato di vedere esplicati in Andless riflessi della “teoria dello spazio d’azione globale” di Baars sarebbe difficile.
Quando ho iniziato la mia carriera universitaria, da subito, il mio Maestro mi disse: “la prima cosa che un ricercatore deve fare per scoprire qualcosa è STUDIARE l’argomento in questione, non limitarti alla superficie. Solo dopo cercherai le risposte alle tue domande”.
Si proprio così, gentile sig.ra Raccichini. La prossima volta prima di scrivere un articolo, studi, si informi (magari direttamente alla fonte), vedrà che anche Lei comprenderà di più, ma soprattutto sarà utile ai suoi lettori. Non ne faccio una colpa a Lei, ma al suo editore/direttore che vi usa per scrivere di arti come di cronaca o politica. Il pubblico pagante capisce queste cose.
Cordiali saluti e
ad majora
G. Caldara
PS: o poco tempo per ricontrollare eventuali errori di grammatica e di repicare per Barok, ma vale lo stesso discorso
Gentili signori,
grazie dei vostri preziosi contributi.
Con le vostre considerazioni, critiche, precisazioni, inviti allo studio, ecc.. ecc. avete fatto si che questo piccolo articolo, frutto del “mio evidentemente limitato punto di vista”, diventasse spunto per una riflessione di più ampio respiro. Esattamente ciò che volevo e ciò che dovrebbe fare la critica per tentare di essere seria, pronta, onesta, autentica. E per questo mai inutile.
L’articolo non mirava a dare agli spettacoli un voto a mo’ di paletta di ‘Ballando con le stelle’, al contrario, voleva proprio aprire uno spiraglio di discussione e confronto. Mi sembra che ci sia riuscito.
Questo Klp lo rende possibile perché tutti gli articoli sono ‘commentabili’, una possibilità da non dare per scontata neanche nel web ed impensabile per le riviste cartacee.
Purtroppo, e sottolineo purtroppo, la maggior parte degli artisti è costretta a prendere e portare a casa ciò che su di loro viene scritto senza alcuna possibilità di dibattito. Un vero peccato, anche se a scrivere fossero stati i Gabanelli, Biagi, Montanelli e Pansa citati da qualcuno.
Mi si accusa di incompetenza, di scarsa sensibilità, di cialtronaggine, incapacità di saper leggere anche il più elementare linguaggio scenico… qualcuno addirittura mi ri-descrive quasi lo spettacolo come per dire ‘guarda quante cose ti sei persa’.
Difficile rispondere. Forse potrei farlo, almeno in parte, illustrando come di solito noi della redazione ci prepariamo alla visione di un evento – tra ricerche personali, studi pregressi, pile di cartelle stampa, enciclopedie, youtube, incontri… – ma mi sembrerebbe di sminuire la fiducia di quanti invece credono nella competenza dei redattori di Klp.
Ad ogni modo se cliccate su Redazione c’è il curriculum di ognuno. Anzi, vi invito a mandare anche il vostro per mettere al servizio dei lettori e dell’umanità intera le vostre competenze. Però poi tocca firmarsi (sono grata invece a chi il nome e cognome l’ha messo).
Infine, vorrei rispondere a quelli hanno trovato il mio tono fuori luogo o perché ironico, o perché aggressivo (??), o perché cucin-cameratesco a causa della citazione sulla Maria: ecco, scrivere di teatro e restituire una visione non può esimersi dal farlo secondo le corde che questa ha toccato, siano esse commosse, divertite, dubbiose, confuse, smarrite, o indignate. Restituirla come se non mi avesse scalfito o come se non mi avesse posto degli interrogativi – come invece hanno fatto gli spettacoli in questione – sarebbe stato, questo si, disonesto ed inutile. Gli aneddoti raccolti tra il pubblico spesso valgono più di mille frasi elucubrate. Non sono argomenti da cucina, anzi, sono una speciale cartina tornasole che è sbagliato ignorare. Lo sapevano bene alcuni tra i grandi critici cha hanno fatto la storia di questa disciplina…
Per quanto mi riguarda, fuggo e scappo via dalle recensioni scritte col mignolo alzato.
Nessuno di voi si sarebbe sentito chiamato in causa e probabilmente nessuno di voi avrebbe lasciato un commento, con grande pena del mio povero e semplice punto di vista.
capito su questo articolo fuori tempo massimo, forse, dove sono finita per caso.
il fatto curioso è che io c’ero. io c’ero a polverigi, due estati fa, in trasferta da festival, a vedere lo spettacolo di albanese.
la ricordo come una delle esperienze spettacolari più deludenti della mia vita, per fortuna molto breve.
al termine non applaudii neanche, e come me credo molti altri. mai successo di non applaudire dopo uno spettacolo, specie se per partecipare cambio regione.
andless è stata una performance deprimente, monotona, forse anche autocelebrativa, con albanese che ogni tanto emergeva dal buio col nulla.
capisco anche l’intervento di loredana scianna, ma mi pare che la critica sollevata dall’articolo sia perfettamente circostanziata e lo spettacolo davvero indifendibile.
quello che scrive la scianna pare più il frutto di una reattività anale (parlo in senso psicanalitico).
ma non sarebbe più utile per gli artisti interrogarsi periodicamente sulle proprie istanze e fare tesoro degli insuccessi invece di accusare il resto del mondo di inadeguatezza? il senso di smarrimento di fronte ad andless l’abbiamo provato in tanti, almeno tutti quelli del gruppo con cui ero e con cui ho avuto un confronto post-spettacolo poco moderato. eravamo indignati. siamo per questo tutti inetti e cialtroni?
l’alternativa è che questi artisti così poco avvezzi alle critiche fondino un circolo esclusivo di eletti dove continuare a autoincensarsi..
ma che stiano alla larga poi dai festival popolati da noi spettatori volgari e appassionati.