Clinica Mammut alla ricerca di un Tempo, intimo ma anche esteriore

Clinica Mammut
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Prima parte della trilogia in divenire “Memento mori – icone della fine”, “Col tempo” di Clinica Mammut, già presentato come studio al Festival dell’Incanto Roddi 2012, è tornato sul palco di Zoom Festival in una nuova veste. A interpretarlo stavolta (prima era stata Veronica Milaneschi) Alessandra Di Lernia, autrice del testo e co-fondatrice del gruppo romano.

La scrittura scenica dello spettacolo disegna una sorta di porto franco al centro del palcoscenico, in cui l’attrice è catapultata e a cui si volge per tentare di afferrare e comprendere in sé frammenti di tempo. Indubbiamente del suo tempo: anni in cui ha imparato a disprezzarsi e a disinteressarsi del mondo. Anni in cui un silenzio ideologico ed esistenziale si è insinuato tra le pieghe della quotidianità, per scardinarne i legami e mutarne i presupposti. Tant’è che ondate di ricordi sembrano mischiarsi tra loro insieme a galleggianti nature morte a un angolo della scena.

Tuttavia, v’è su questo pavimento sfuggente di senso una trave ancor più scricchiolante delle altre: la perdita di un’originalità che coincide con la percezione più generale della ‘vanitas’ umana. Se di questa vanitas è l’io a scegliere toni e sfumature, l’inquietudine e lo spaesamento che consegue alla loro giustapposizione fuoriesce felicemente dalla scena alla nostra quotidianità.
L’estrema caducità del tutto non rimane così più solo un sentore, rumore di fondo sulla scena di un’esistenza, ma attraversa classificazioni antropologiche e derive politiche, impossibili comprensioni e altrettanto difficili somiglianze fra comunità, oltre che differenze sostanziali di sentimenti e pulsioni tra i singoli.
 
Eppure, su questa nave alla deriva, un vaso di fiori può essere una buona spalla per tentare di colmare il vuoto fra il pensarsi e l’essere, per pensarsi oltre l’immediato fragile, delebile e relativo di un’attualità. La pianta fiorita, semi-viva e semi-morta al contempo, trapiantata alla base e oltraggiata agli estremi, oltre a non riuscire a trovare una propria collocazione – essa passa nelle mani della donna da un luogo all’altro della scena, girando e rigirando al suo interno – ne  richiama a scatti un’altra, gemella, rovesciata e visibile al pari di un’idea-immagine frutto di una coscienza baluginante al di sotto del palco.

A fare da contraltare alla presenza contraddittoria della donna che pensa e si prefigge di continuare a pensare, pur sapendo che tra le pieghe del tempo e del suo stesso corpo qualcosa le è sfuggito e continuerà a farlo, si situano distrazioni minime e collegamenti vintage ugualmente intermittenti.
Queste apparenti divagazioni rivelano però la compattezza sfuggente di un mondo a cui non è possibile aggrapparsi ma nemmeno trovarsi. I passati miti di purezza e bellezza ideologica e politica appaiono ora come continenti perduti, irrecuperabili al di là di un orizzonte in crisi, mentre l’isola si sgretola a ondate di ironia. La quotidianità è ora territorio indefinito di un’età che non riesce ancora a trovare una propria configurazione, ma non può ovviamente nemmeno tornare allo stadio precedente.

Quello di Clinica Mammut è un canto dell’intermedio che interroga affermando il presente, una cultura e la propria stessa individualità all’interno di essa;  un’operetta del quotidiano che non insiste su remore nostalgiche o considerazioni morali ma s’insinua, indossandole, all’interno delle loro fratture. Fratture che corrispondono a buchi nella trama di un’abitudine, di cui lo spettacolo tenta di tracciare i sempre più indistinti contorni senza riuscire a mutarsi. Ma di cui vuole e riesce a distribuirci una vivida fotografia.   

Dalle pieghe di questo abito all’occidentale, fatto di corpo e parole, fuoriesce il lamento solitario di chi non vorrebbe invecchiare, e intacca come un monito per osmosi anche l’esterno, arrivando tra le fila del pubblico e della contemporaneità come un turbamento.

Il confine fra le cose e i tempi, ma soprattutto i risultati di una loro commistione, sovrappongono così i loro margini, invitandoci a dar tempo al tempo per sentire e vedere il percorso completo di questa trama fatale.

COL TEMPO

testo: Alessandra Di Lernia
regia: Salvo Lombardo
con: Alessandra Di Lernia
ambiente sonoro: Andrea Balsamo
luci e fonica: Valerio Modesti
assistente alla regia: Gloria Anastasi
progetto grafico: Marta Renzi
foto di scena: Simona Caleo
produzione: Clinica Mammut
con il sostegno di Teatro Furio Camillo|L’Archimandrita, Fonderia delle Arti, Festival dell’Incanto Roddi 2012
durata: 40′

Visto a Scandicci (FI), Teatro Studio, il 9 novembre 2012
Zoom Festival


 

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