
Rodolfo Di Giammarco (LA REPUBBLICA)
ROMA – Artista dalle tante vite, è scomparso due volte, il grande Leo de Berardinis, ridotto in coma irreversibile il 16 giugno 2001 per un episodio di sospetta malasanità (un’anestesia letale per un intervento di chirurgia estetica a Villa Torri di Bologna), e spirato infine ieri a Roma a 68 anni accanto alla sorella Annamaria. Per aiutare quella sua sopravvivenza vegetativa erano circolati appelli e raccolte di fondi da parte dei teatranti italiani, e da questo luglio gli era stato concesso il vitalizio della legge Bacchelli.
Ci ha lasciati uno dei talenti più impetuosi, creativi e profondi del teatro di ricerca di fine ‘900, dotato di tanto genio e sincerità da essersi meritato una vera fama d’artista popolare, non a caso sostenitore, come amava dire, di una “tradizione del nuovo”. Eppure Leo, nato in provincia di Salerno, non s’era risparmiato, fin da ventiduenne, a Roma, ogni avventura radicale, con le stimmate d’una sperimentazione condivisa all’epoca con Carlo Quartucci.
Stefano de Stefano (CORRIERE DEL MEZZOGIORNO) – “Era il ’68 – scriveva in proposito Leo – e c’erano altre influenze che ci hanno fatto scegliere di andare a Marigliano. Anche per riprendere un mio discorso culturale: perché io venivo dal Sud, ero un emigrante, come emigranti erano Carmelo (Bene) e Carlo (Quartucci), uno siciliano, l’altro pugliese. Si cominciò a portare laggiù la nostra esperienza, che era stata etichettata come teatro d’élite. In effetti non era d’élite, era soltanto un’esperienza teatrale priva, per responsabilità dei politici, di un’organizzazione del pubblico, di un circuito.
Gianni Manzella (IL MANIFESTO) – Un veggente dagli occhi bendati che si aggrappa al sassofono, il poeta adolescente folgorato dalla bellezza amara dell’arte. Un Pulcinella tragico, sul punto di appendersi a un cappio. Un bellimbusto dall’aria guappa fra le luminarie di una festa. Un clown dal cappello troppo piccolo, attonito emulo di Buster Keaton. Un re Lear dalla lunghissima barba bianca. La maschera beffarda di Totò impressa sul volto del principe Amleto. E forse era questa, da ultimo, l’immagine che con più convinzione Leo aveva voluto legare a sé. Totò principe di Danimarca come titolava uno dei suoi lavori più belli che mescolava le storie e trasportava la tragedia nella farsa napoletana. Quasi un suo doppio. Thelonious Monk e Totò. Per chi a sera arrivava a casa di Leo de Berardinis, in certi anni, il sonoro volentieri era quello, amplificato dallo stereo o dal videoregistratore. Il pianoforte di Monk, misterioso; la parlata napoletana di Totò, in uno qualsiasi dei suoi tanti film. Dico gli anni bolognesi in cui metteva radici il Teatro di Leo e si discuteva di un teatro nazionale di ricerca (poi anche qui hanno fatto di tutto per dimenticarlo, nello spazio da lui creato ci hanno messo dentro una scuola di circo).
Renato Palazzi (IL SOLE 24 ORE) – Leo e Perla emigrano in un paese dell’entroterra napoletano, Marigliano, dove intraprendono il più spiazzante tentativo di contaminare la ricerca con una ruvida sottocultura popolare, coinvolgendo la gente del luogo in una serie di titoli – O’ zappatore, King lacreme Lear napulitane, Sudd – in cui il furore avanguardistico s’intreccia con la sceneggiata. Dopo avere rotto anche con Perla, imbocca ancora un’altra strada, fatta di spettacoli di ampio respiro, quasi in un impulso di ricomposizione.
È in questa prospettiva che lascia il segno più profondo, muovendosi sostanzialmente tra due poli: da un lato il personale omaggio ai più amati punti di riferimento, Totò principe di Danimarca, l’Eduardo di Napoli milionaria, dall’altro una specie di visionario tragitto dentro alcune opere canoniche, dalla Tempesta di Shakespeare ai Giganti della montagna di Pirandello all’apocalittico Novecento e mille.
Perdonateci.