Vincenzo Cerami (Roma, 2 novembre 1940 – Roma, 17 luglio 2013)
In molti Cerami lo ricordano soprattutto per la sceneggiatura de “La vita è bella” di Benigni. Ma dietro a tanto cinema ci sono anche la drammaturgia per il teatro e moltissimi libri (nel ’76 “Il borghese piccolo piccolo” – che l’anno successivo diventerà soggetto per il film di Monicelli con Alberto Sordi – gli portò la notorietà, ma ne seguirono davvero tanti altri). Lui, che ebbe come insegnante alle scuole medie un giovane Pier Paolo Pasolini e poi ne sposò la cugina.
La prima volta che ebbi modo di conoscere Cerami eravamo a Torino, io giovane laureata in filosofia nella segreteria organizzativa di un famoso premio letterario, e lui giurato di quel premio che vedeva sfilare scrittori di ogni nazionalità, premi Nobel e professori.
A distanza di tanti anni, è capitato di rincontrarlo un anno fa. E così decidiamo di ricordarlo in una splendida serata d’inizio giugno, ospiti a La Mama Spoleto Open.
Tutti seduti attorno ad una grande tavolata all’aperto piena di ottimo cibo e vino umbro. Non una cena formale, tutt’altro, degna di quello che sarebbe stato forse lo spirito di Ellen Stewart per quella sua dimora rinata, oggi residenza per artisti da tutto il mondo, che vive di una quiete elitaria appena fuori Spoleto, immersa tra gli alberi e le case di pietra.
C’era anche lui, Vincenzo Cerami, quella sera, perché di Spoleto era assessore alla Cultura, e del primo La Mama Spoleto Open un entusiasta supporter, convinto che fosse necessario dare spazio non solo al teatro più istituzionale (rappresentato dal Festival dei Due Mondi), ma anche a voci minori e differenti, più o meno ‘off’. Tra la vite e il grande leccio, mentre il sole lasciava spazio alle stelle, in quel limbo dorato in cui – un bicchier di rosso in mano – ci si poteva perfino concedere il tempo per parlar di teatro, territorio e cultura.
“Comunque, prima di andare in giro in cerca d’avventure, passò per il cimitero per portare un mazzo di garofani alla sua grande amica. Guardò la triste foto incastrata nell’ovale d’alluminio e, in silenzio, promise a Gertrude che da lì a qualche giorno si sarebbe buttata dal ponte. Ma in cuor suo incrociava le dita e intanto prendeva atto di una spaventosa ingiustizia: sul marmo delle tombe attaccano sempre le ultime foto della vita. Possibile che dell’intera esistenza di un essere umano debba rimanere l’immagine più disfatta?”.
(Vincenzo Cerami, “Gertrude e Filomena”, in “La gente”)