Ermanna Montanari, attrice cardine del Teatro delle Albe di Ravenna, per quest’edizione del festival di Santarcangelo (al via la prossima settimana) ha preso le redini della direzione artistica della rassegna-simbolo del teatro contemporaneo italiano.
Ne abbiamo parlato con lei, per capire cosa succede davanti e dietro il palco in un momento così delicato per la cultura italiana.
Cosa porti, nella tua esperienza di direttrice del festival di Santarcangelo, di Piero Patino, Roberto Bacci e Leo de Berardinis?
Il nome di Patino suonava curioso a noi ventenni, sapevamo che era stato il primo direttore del festival, ma nessuno di noi l’aveva mai incontrato. Di Bacci ricordo l’edizione del ’78, quelle strade infuocate di presenze. Leo invece è stato un maestro a tutto tondo.
Hai deciso di dedicare questa edizione alla figura dell’attore. La nostra epoca teatrale è invece segnata anche e molto spesso da figure registiche ingombranti. Cos’è, dunque, l’attore?
Un regista ingombrante non è un vero regista. L’unica figura di regista che mi interessa è quella che si confronta da pari a pari con l’attore, che lavora, si diverte e patisce con l’attore, che insieme all’attore si interroga e tenta di realizzare l’alchimia necessaria alla scena. I registi ingombranti li lascio a chi si fa ingombrare, schiacciare dal peso dei ruoli, a chi cede alla vigliaccheria. L’attore è colui che subisce l’esistere e lo incarna come mistero sulla scena, non un dipendente che dice signorsì.
Un artista che diventa direttore artistico: qual è la difficoltà maggiore che hai trovato nel metterti dall’altra parte del sipario?
E’ sempre la stessa battaglia, immaginare uno spettacolo o un festival ti impegna allo stesso modo. E’ un vincolo con te stesso, una sfida. Ci sono tante differenze, ovvio: partecipare a un consiglio di amministrazione non è come stare in silenzio sul palcoscenico. Ma in fondo la questione è la stessa: cosa sei disposto a fare, a rischiare? Vuoi creare bellezza, o ti limiti a fare un compito? Quanto sei disposto a sbucciarti le ginocchia, perchè l’idea si faccia carne, opera?
Per cosa ti piacerebbe fosse ricordato il 41° festival di Santarcangelo?
Te lo dirò il 18 luglio. Per ora lasciamele sognare, queste dieci giornate di festa.
Avete deciso di ospitare nella piazza di Santarcangelo una sedia di ogni teatro d’Italia, e centinaia di teatri stabili e “instabili” vi stanno inviando sedie e poltrone con il proprio nome. In un momento così drammatico per il teatro italiano, con il teatro Valle occupato e molte realtà a rischio se non già chiuse, secondo voi – che come Teatro delle Albe da vent’anni gestite il teatro Rasi a Ravenna – come possono sopravvivere i teatri italiani?
Non mi sono mai piaciuti i proclami, le raccolte di firme, le retoriche. Ho chiesto a tutti i teatri italiani una sedia, quella platea colorata e asimmetrica e squillante sarà la più bella dimostrazione che nessuno ci pensa neanche lontanamente a scomparire, che nessuno si rassegna a “sopravvivere”, parola odiosa. Si vive, e si vive fino in fondo la scommessa dell’arte, senza sconti; non si “sopravvive” come animali in estinzione. Oppure si vive “sopra”, sopra alla meschinità di un mondo che premia il peggio.