Da un lato i colori che respirano, che vorticano, che pulsano; la luce, lo spazio e il movimento di quei quadri in cui la cornice non è che un segno di convenienza, mai un limite. Dall’altro tutto un mondo di emozioni oscure, di inaccessibile solitudine, di cenni di biografia che rimbalzano di lettera in lettera, di testimonianza in testimonianza lasciando in eredità un personaggio enigmatico, schivo, sfuggente come lo è solo certa storia lontana.
Questo è Vincent Van Gogh, quello che in molti conoscono, o pensano di conoscere. Innumerevoli sono stati i tentativi di dare della sua arte e della sua vita una lettura uniforme, un “quadro del quadro” che definisca i contorni di un’ansia di vivere e, soprattutto, di raccontare. Eppure troppo spesso si corre il rischio di scivolare nella tautologia, nel ribattere pleonastico sullo stesso segno, ché di per sé la pittura dovrebbe già comunicare tutto, senza bisogno di cercare, con discipline altre, codici di approfondimento laterali o, peggio, conati di semplificazione.
Graziano Graziani, ancor prima di essere giornalista e critico teatrale (Carta, Differenza.org, Opera Mundi, Lettera 22, Hystrio) è un blogger (Stati d’Eccezione) e soprattutto uno scrittore, nel senso più lato del termine. Negli anni, oltre a testi di ricerca intorno al teatro (“Hic Sunt Leones”, Editoria&Spettacolo, 2007 e “Zone Teatrali Libere”, Editoria&Spettacolo, 2009) ha pubblicato narrativa (“Esperia”, Gaffi, 2008) e scritto testi per la scena.
“Il ritratto del dottor Gachet” è il frutto di un laboratorio teatrale del 2000, al quale Graziani prendeva parte come scrittore e i cui materiali sono stati poi da lui stesso rielaborati quattro anni dopo, fino a vedere la luce in questa pubblicazione de La Camera Verde, presentata qualche settimana fa a Roma nonostante la pubblicazione rimandi al 2009.
Graziani stesso, nella nota conclusiva, parla di questo testo come di una “scrittura scarsamente teatrale, ma che sogna la scena e non può fare a meno di relazionarsi ad essa”. Questo breve sguardo che l’autore lancia nel proprio stesso specchio è in grado di fornirci gli elementi essenziali per leggere “Il ritratto del dottor Gachet”.
Nell’arco di tre scene si incrociano quattro personaggi, punti cardinali di un sentire artistico: Van Gogh, il dottor Gachet – medico del pittore e suo mecenate –, sua figlia Marguerite e Theo, il fratello di Vincent.
In nessuno di questi momenti avviene un vero e proprio contatto fra queste quattro entità, che parlano come da una grotta buia, trasferendo a se stesse piccole riflessioni, moti dell’anima segreti e sussurrati, molliche di pane in un cammino di comprensione. E per comprensione ci piace intendere quell’azione che abbraccia l’essenza delle cose, che, appunto, le comprende, ne considera la costanza o la rottura con un tempo che varia la propria forma a seconda della persona che lo abita e vi si rapporta.
Scrive Attilio Scarpellini nell’introduzione: “Non è un dialogo. È piuttosto un salmo recitato con il metodo dei ‘cadavres exquis’, dove ciascuno scrive alla cieca sul bordo ripiegato che chi lo precede ha lasciato libero, giocando a intuirsi o presentirsi, a incrociarsi in una visione sempre in controtempo”.
Ed è forse anche per questo che nessuna didascalia arriva a disciplinare l’impatto del testo di Graziani con il linguaggio della scena, come se l’autore per primo andasse in cerca di quella lattiginosa cecità.
Nel primo quadro Vincent dialoga con una Voce, forse proveniente da qualche antro buio al di là delle proprie stesse costole, liquidando con un ingegnoso e sommesso dialogo allo specchio il problema dell’inflazionata “pazzia”, qui vista invece come una malinconia quasi congenita, più propria del momento storico che della condizione personale del pittore. Il secondo quadro presenta tutti i personaggi, in un susseguirsi di monologhi che chiamano la frontalità, per poi andare a mescolarsi con grande fluidità nel quadro finale, in cui le riflessioni sembrano passarsi il testimone tramite brevi associazioni di pensiero.
Il segmento di vita in cui Van Gogh frequentò il dottor Gachet, medico condotto di Auvers, è quello finale, estremo, in cui la nevrosi era già alle spalle, sostituita da una malinconia che da un lato lo comprimeva in un silenzio apatico, dall’altro gli incendiava la creatività, al punto che settanta opere, tra cui quelle più conosciute, vennero da lui dipinte in solo un mese di lavoro. E il contatto con Gachet e sua figlia Marguerite rappresenta un’altra faccia, silente anch’essa ma espressa poi nel vortice dei colori, del rapporto epistolare, insieme viscerale e gelido, con il fratello Theo.
Il legame tra i quattro personaggi è come una staffetta incrociata, in cui Gachet rivede nella figlia l’ombra della moglie morta (come sconfitta della medicina nei confronti della morte) e nei dipinti di Vincent il fallimento del sogno di diventare artista; Vincent tormentato dai particolari, dall’esigenza di fermare immagini senza tuttavia ucciderle; Marguerite con il corpo ferito dallo sguardo del padre e del pittore; Theo come fosse sempre in viaggio, avanti e indietro sui binari di quell’inafferrabilità, quel costante essere in parallelo, mai in tempo.
Il tempo è la materia volubile attraverso cui nuota questa storia, che riesce comunque ad essere, sul filo della poesia, una narrazione per immagini e insieme una grande prova di teatralità, proprio in quel considerare la dimensione racconto come punto ultimo di un’esperienza. Perché di quell’esperienza ogni arte sarà espressione fallimentare, ed è il teatro quell’ambiente paradossale in cui eventi già accaduti tornano ad avere, se non una nuova vita, certo un momento di vitalità.
Graziano Graziani
Il ritratto del dottor Gachet
pagg. 39
edizioni La Camera Verde
2009