Agosto 1976. Un famoso bandito, fuggito dal carcere di Lecce due giorni prima, viene riconosciuto mentre si nasconde nelle campagne salentine. Inizierà così una grottesca caccia all’uomo che mobiliterà l’intero paese, inclusi i bambini.
Ma non è tanto la storia di Graziano Mesina (qui soltanto sfiorata) che ci fa apprezzare questo “Iancu, un paese vuol dire”. Anzi, forse quella è soltanto un pretesto.
La nuova produzione dei Cantieri Teatrali Koreja, con un eccellente Fabrizio Saccomanno in scena, racconta una storia – tante storie – di un paese piccolo, divorato dagli schieramenti, da amore e invidia, dalle guerre, e dalla poesia di un bambino che vede tutto con occhi innocenti.
Perché “un paese vuol dire non stare soli”, afferma il protagonista. E allora tutti sanno la storia di Rosa Parata, che andava in giro ‘parata’ anche quando doveva essere arrestata, e del suo sacco in cui voleva rinchiudere tutte le cose brutte che la vita ci offre; o quella dello storpio, mutilato di guerra, che fa paura a tutti i bambini. E ancora l’Angiolina, che attende il ritorno del suo amore dalla guerra sull’uscio di casa con una foto tra le mani, e quando si è stancata di aspettarlo cambia la foto con quella di Kabir Bedi.
Un mondo duro, difficile, che non ha spazio per la pietà ma offre continui spunti poetici e divertenti. Tante storie, che vengono scosse di colpo dall’arrivo (presunto e mai verificato) del bandito Mesina, che si nasconde tra le case, e che tutti cominciano a cercare in una tragicomica danza.
Lo spettacolo è denso di contenuti, tutti interessanti, e Saccomanno interpreta i personaggi e le storie con una grande capacità di trasformismo. In alcuni punti diventa difficile da seguire, forse per le troppe notizie, forse per il ritmo sincopato e veloce con cui gli argomenti sono offerti al pubblico, probabilmente complice quella usuale tensione di una delle prime repliche in scena, che nulla ha a che vedere con la capacità attorica del protagonista.
Con un monologo di settanta minuti i Cantieri Teatrali Koreja ci coinvolgono in una divertente saga, che racconta la storia di un’Italia che un po’ stiamo dimenticando: quella dei panni stesi al sole e delle comari chiassose per la strada. Un affresco degli anni passati del profondo Sud, visto con gli occhi di un bambino di otto anni nel quale tutti, ma proprio tutti, non facciamo fatica a riconoscerci.
E mentre la compagnia salentina incassa un nuovo successo, in vista di una tournée estera che la porterà in Iran, Polonia, Macedonia, Bulgaria, Turchia e – per la prima volta – anche in Sud America (Bolivia e Brasile), continua parallela la richiesta di “essere visti” proprio a casa loro, in quella splendida Lecce barocca che tuttavia parrebbe indifferente alle difficoltà, oggi, di fare teatro.
Da qui una lettera indirizzata al sindaco: “Siamo l’unico teatro stabile in Italia riconosciuto dallo Stato che non ha una convenzione con il proprio Comune e che non ha mai ricevuto un centesimo né in lire né in euro per una attività che, ovunque e sempre, necessita del sostegno pubblico […]
Noi lavoratori, dipendenti e scritturati dei Cantieri Teatrali Koreja di Lecce, siamo in partenza per una tournée internazionale. Potrebbe essere l’ultima tournée e l’ultimo spettacolo se non ci sarà da parte dell’Amministrazione Comunale quel gesto concreto di attenzione e sostegno finanziario che attendiamo da dieci anni e che consentirà di evitare la chiusura del teatro e il licenziamento di noi tutti.
C’è la nostra emergenza occupazionale in città, insieme a quella di altri settori che pure hanno protezione sociale. Siamo 18 persone che lavorano stabilmente e continuativamente a Koreja e ce ne sono altrettante con contratti e consulenze a tempo. […]
Dal 9 al 12 marzo arriveranno nel nostro teatro un centinaio di operatori, esperti, professori e giornalisti da tutto il mondo (Giappone, India, Inghilterra, Francia, Bulgaria, Georgia, Brasile, Germania) per conoscere il repertorio della compagnia Koreja e la città [discutendo, attraverso tre worshop, su ‘Le identità dei luoghi’, ‘Reti internazionali’ e ‘Performing arts, periferie e minoranze sociali’, in uno scambio reciproco di esperienze e nel desiderio di creare ‘nuovi ponti’, ndr].
Vorremmo evitare di dare loro il benvenuto e nello stesso tempo l’addio definitivo al teatro e alla città”.
IANCU
progetto: Fabrizio Saccomanno
testo: Francesco Niccolini e Fabrizio Saccomanno
con: Fabrizio Saccomanno
regia: Salvatore Tramacere
scenografia: Lucio Diana
foto: Lucia Baldini
cura tecnica: Mario Daniele, Angelo Piccinni
cura della produzione: Laura Scorrano
organizzazione: Franco Ungaro
durata: 1h 10′
applausi del pubblico: 4′
Visto a Milano, Teatro Ringhiera Atir, il 26 gennaio 2011