All’interno del programma di questa edizione del Kilowatt Festival, di cui abbiamo già iniziato a raccontare qui, due spettacoli sono stati presentati all’interno di abitazioni private.
Partiamo da “Come va a pezzi il tempo” di Progetto Demoni, ossia Alessandra Crocco e Alessandro Miele, per una coproduzione Kilowatt.
Per dieci giorni i due hanno “abitato” una piccola casa all’interno di Sansepolcro. Il loro lavoro site specific nasce da questo periodo, e da uno spazio casalingo che è necessariamente piccolo, fuori misura e quasi senza tempo.
Saliamo le strette scale, quattro spettatori alla volta, e ci ritroviamo ad essere davvero spectator – oris, testimoni di una storia che non c’è più ma è vissuta fra quelle pareti.
Un uomo e una donna hanno abitato qui, si sono amati, hanno sognato insieme una vita diversa, un futuro che non è stato. Nelle stanze anguste si muovono come fantasmi di un tempo finito. Noi assistiamo al loro amore, alle parole che tutte le coppie del mondo si scambiano nei momenti in cui la passione copre ogni cosa, e anche negli altri, quelli in cui non si riesce più a vedere una strada comune. E allora sono grida, pianti e addii senza ritorno.
Senza accorgersene ci si ritrova con lo stomaco chiuso, gli occhi lucidi e la sensazione di voler dire ad alta voce: “Aspettate! Abbiate pazienza l’uno con l’altra, non vi arrendete ora!”. Invece scende il silenzio dopo la porta sbattuta. Un silenzio che vorresti fosse spezzato da un lieto fine che non può essere.
Progetto Demoni lavora da anni su performance per pochi spettatori, momenti che vanno oltre il concetto di spettacolo, attimi che arrivano intensi al cuore, capace di lasciarsi alle spalle il proprio mondo. Ecco allora che “Come va a pezzi il tempo” riesce ad essere un tuffo in un tempo parallelo.
Usciti, si volge lo sguardo alla finestra chiusa con il pensiero di aver immaginato ogni cosa, e si ritorna, lenti e confusi, alla propria vita.
Cercateli in giro, questi Demoni.
Lo spagnolo Xavier Bobés Sola presenta, sempre in abitazione privata, “Cose che si dimenticano facilmente”, performance che, dal suo debutto nel 2015, ha già replicato 750 volte.
Stavolta gli spettatori ammessi sono cinque. Xavier li accoglie in cima alla scalinata di un vecchio palazzo, li invita a posare in una scatola i telefoni, scatta una foto tutti insieme e li accompagna in una piccola stanza buia.
Attorno ad un tavolo tondo cinque sedie. Tutto prenderà vita attorno a questo tavolo.
Non possiamo raccontarvi molto per esplicita volontà di Xavier, che desidera mantenere tutta la sorpresa e lo stupore necessario per gli spettatori che verranno. Perché di questo si tratta: stupore e meraviglia.
La storia è quella di una famiglia spagnola (in qualche modo la sua) che si intreccia alla storia della Spagna, svelata attraverso centinaia di oggetti mirabilmente “diretti” dalle mani affusolate di Xavier: foto, giornali, cartoline, piccole scatole, biglietti di auguri, e ancora calendari, portachiavi, minuscole scatole che contengono altrettanto minuscole meraviglie. E’ come ridiventare bambini e stupirsi ad esclamare “ooohh” ad ogni gesto. Immersi nella storia siamo invitati a toccare, interagire e brindare insieme. Come se la storia fosse anche nostra.
Negli occhi di spettatori fra loro sconosciuti ritroviamo lo stesso sguardo incantato che riflette il nostro. Ci ritroviamo fuori con la voglia di tornare a casa a scovare vecchie foto, lettere e cartoline che, se non abbiamo buttato, giacciono polverose in qualche scatola…
Lasciamo le abitazioni – ma non del tutto – per assistere all’esito del lavoro della compagnia Bartolini / Baronio, che arriva da Roma con “Dove tutto è stato preso”.
La drammaturgia di Tamara Bartolini prende spunto dal romanzo di Thomas Bernhard “Correzione” e dalla sua utopica concezione di “casa”.
Il lavoro si è poi sviluppato attraverso una serie di residenze nelle quali Tamara Bartolini e Michele Baronio hanno intervistato decine di persone e si sono interrogati proprio intorno al concetto di casa. Prima Taranto, poi Brescia, Castiglioncello, la Calabria per poi ritornare a Roma.
Ogni tappa ha segnato profondamente il loro lavoro. Il monologo iniziale di Baronio racchiude in una sola voce tutte quelle che ha ascoltato nei mesi in giro per l’Italia: è uno struggente grido di disperazione in cui si mischiano idiomi e dialetti. A partire dagli abitanti di Taranto – giovani e vecchi, senza distinzioni – che, raccontano gli artisti, non riescono a vedere un futuro.
Il monologo rende il senso di smarrimento, del sogno infranto di una casa prima immaginata come nido e rifugio, ma con il passare del tempo molto più simile ad una prigione.
Nella seconda parte dello spettacolo ritroviamo la coppia alla ricerca di un posto in cui poter vivere una vita migliore. Si parlano, fanno progetti, per ritrovarsi pian piano a non ascoltarsi più, immersi in una solitudine di cui quasi non sono consapevoli.
Dalle macerie di quella che pare una vita senza futuro, l’unica via di scampo, l’unica possibilità di riscatto sembra arrivare dalla nascista di un nuovo essere umano. Il parto come epilogo ed opportunità di guardare ancora avanti.
Ciò che colpisce nello spettacolo è l’estrema naturalezza del racconto, in cui siamo tutti viaggiatori alla ricerca di un posto in cui sentirci davvero a casa.
Interessante anche il lavoro de Leviedelfool “Heretico. Sette capitoli all’interno del mondo della religione”, di cui su Klp aveva già parlato.
Lo spettacolo, a tratti dissacrante, ha una forte componente pop, ma è allo stesso tempo pregno di una profonda sacralità. Non è uno spettacolo contro la religione, semmai contro il dogma.
“Heretico” si conferma un lavoro completo e maturo, in grado di affrontare un tema così spigoloso senza ferire chi crede, ma lasciando anzi, con un linguaggio estremamente poetico, una grande apertura verso ciò a cui non sappiamo dare risposta, mettendo al bando solo l’inquisizione e i falsi idoli.
Non convince alla stessa maniera “Prof”, alla regia di Alberto Giusta, in scena Massimo Rigo, una produzione del Teatro Libero di Palermo.
Il testo da cui è tratto lo spettacolo è sicuramente di grande attualità: “Prof” di Jean Pierre Dopagne racconta infatti i soprusi e le violenze a cui sono sottoposti oggi gli insegnanti, fino ad un inaspettato epilogo di violenza. Eppure la messa in scena risulta poco sostenibile. In quasi un’ora e mezzo di spettacolo pare mancare una precisa scelta registica in grado di dare un ritmo a quello che diventa un infinito monologo.
Invasi da troppe parole finiamo per reggere a stento, e soprattutto a non comprendere la reale motivazione che ha spinto a questa riduzione teatrale. Non basta un tema scottante per rendere efficace uno spettacolo; il rischio è di sortire, a volte, effetti contrari a quelli desiderati.
E’ un desiderio di altro tipo quello messo in scena dai Maniaci d’Amore con “Il desiderio segreto dei fossili”, che Klp aveva già visto esattamente un anno fa.
Francesco D’Amore ci convince pienamente facendoci sorridere (e perfino ridere) nei panni di Amita, l’unica donna rimasta single nel paese di Petronia, dove da sempre nessuno più nasce e nessuno più muore. Un’interpretazione a tratti esilarante.
Riemergiamo da Kilowatt a un giorno dalla fine con la soddisfazione di vedere un festival che funziona. A partire dal direttore Luca Ricci, sempre presente, per arrivare a uno staff che sa davvero cosa sia l’accoglienza, e finire con la “libertà di visione” dei Visionari.
Alla prossima edizione!