Il teatro, così umile nella sua immaterialità, è potentemente capace di farci guardare dentro noi stessi e, nel contempo, utilissimo per poter scandagliare i numerosi aspetti della realtà che ci sta intorno, magari osservandoli con occhi diversi.
Comunque la si pensi, avevamo un estremo bisogno di stringerci di nuovo, noi spettatori, gli uni agli altri, in un abbraccio unico con chi sta in scena e con chi la concepisce, per ritrovare il senso di un rito che per troppo tempo ci pareva d’aver dimenticato.
Ciò è avvenuto con il testo che, più di ogni altro, invoca a guardarci dentro, ancora oggi, pur essendo stato pensato più di 400 anni fa; e ciò è avvenuto per mano di un regista che, anche sbagliando, ci ha sempre invitato ad osservare le cose in profondità, con occhi obliqui, mai accomodanti.
Stiamo parlando dell’Amleto di Antonio Latella, che abbiamo avuto la fortuna di vedere alla sua ultima replica al Piccolo Teatro di Milano.
Il rito della condivisione ci appare immediatamente, al Teatro Studio Melato, da come siamo stati posti rispetto alla scena, da come le gradinate e i palchi abbracciano l’azione, con le luci sempre accese, in modo che il diaframma tra noi e gli attori possa essere frantumato, perché quello che accade lì interessa tutti noi, esseri umani che ascoltiamo, e tutti i dieci attori, muniti come noi di mascherina, che ci comunicano quelle parole e che si siedono in platea, con vestiti bianchi, troppo grandi per loro, diligentemente in attesa di “essere” i propri personaggi.
E quindi poco ci interessa che Amleto sia una donna, una generosissima, magnifica, Federica Rosellini; ci interessa invece ciò che quel personaggio porta in scena (quasi una confessione, come indica la presenza fortissima di un inginocchiatoio). Come del resto ci interessa il rapporto che ha con i suoi compagni di scena, che si mescolano nelle parti, a volte raddoppiandole o scindendole.
Al centro dello spazio si apre poi pian piano una specie di botola, che sarà di volta in volta teatro da cui sbucheranno gli attori Maestri, omaggiati da una cascata di petali di rose, invitati da Amleto a smascherare lo zio assassino con la loro arte, e diventerà poi un fiume in cui troverà morte Ofelia, o ancora il luogo della perdita in cui il nostro Principe reciterà il suo più famoso monologo; e ancora cimitero, un posto dove, ci ricorda sogghignante il nostro Principe, tutti noi un certo giorno arriveremo, e dove il nostro Amleto riceverà l’ultima carezza da Orazio.
Un Amleto che ci ha tenuti seduti per quasi sei ore, e a cui abbiamo anche partecipato alzandoci, all’arrivo degli ambasciatori norvegesi. Un testo a noi restituito nella sua completezza dalla nuova sapiente traduzione di Federico Bellini, abituale collaboratore del regista campano: un Amleto totale, a volte dai contorni nuovi ed inaspettati, descritto da parole che abbiamo udito anche per la prima volta, anche se altre decine lo avevamo gustato in mille modi, in mille vesti.
Una traduzione che, affidandosi soprattutto al “Good Quarto” Hamlet, datato 1600-1601, contiene alti e bassi, tragedia e commedia, somma poesia e parole volgari, come il Bardo ci ha sempre abituato, anche con giuste punte di ironia dal sapore contemporaneo.
E’ la terza volta che Latella affronta questo testo, per delle regie che si intersecano con la sua vita e con la sua maturazione come artista. La prima, nel 2001, era un regista “alle prime armi” che avevamo visto alla Sala Fontana di Milano, e il principe di Danimarca era rappresentato come un eroe che si batteva contro le ingiustizie. Nel 2008, avendo come sottotitolo “Non essere – Hamlet’s portraits”, era metafora lampante delle nostre e delle sue disillusioni; e infine questo spettacolo, davanti al quale umilmente il regista chiosa: “Dirigere Hamlet significa misurarsi con il testo del fallimento… un testo che non offre mai soluzione, al contrario suggerisce sempre qualcosa che potrebbe esserlo ma non è. Avevo sempre pensato come farlo, ora mi sono posto nella dimensione di ascoltarlo”.
Questo Amleto latelliano (a collaborare con il regista ricordiamo la dramaturg Linda Dalisi) è anche e soprattutto un omaggio al teatro, non solo come scambio di pensieri e approfondimento della realtà, ma come luogo del sogno, e infatti, con un’invenzione folgorante dello scenografo Giuseppe Stellato, ad un certo punto compaiono in scena i preziosi e riconoscibilissimi costumi di scena dei più significativi spettacoli di Strehler e Ronconi: ed è a quegli involucri vuoti che Amleto dedica le sue famose indicazioni di regia agli attori, sottolineando a noi e a loro la funzione massima del teatro: “Regger lo specchio alla natura di palesare alla virtù il suo volto, al vizio la sua immagine e al tempo e all’età la loro impronta”.
Ed è forse per questo che, nella seconda parte dell’allestimento, dedicata alla madre, tutti gli attori appaiono vestiti di nero alla maniera elisabettiana, liberandosi dalla necessità di dimostrare ciò che avviene solo con la sola nuda parola, ma dando libero corso anche a tutte le possibilità della loro arte: cantano, danzano, corrono, suonano e alla fine volano via come bolle di sapone, proiettandoci al doloroso epilogo della storia, dove la realtà è difficilissima da rappresentare (non per niente i costumi di Strehler e Ronconi finiscono imballati e non fanno più bella mostra di sé).
Un epilogo che, come del resto si apriva la prima scena di questo Amleto, viene solo letto da Stefano Patti (l’unico sempre vestito con abiti moderni), il quale significativamente interpreta anche l’amico dilettissimo Orazio. Ma, insieme a Federica Rosellini, sono da ricordare tutti gli attori di questo spettacolo (che spesso hanno accompagnato il regista nelle sue avventure), un lavoro davvero importante e capitale per la capacità di riconsegnare allo spettatore tutte le magmatiche possibilità che il teatro possiede: Anna Coppola, che passa da essere agghiacciante spettro di Amleto padre a ironico becchino clown; Andrea Sorrentino, indefesso corridore che si deve barcamenare tra Rosencrantz e Guilderstern, ma che suona egregiamente con il suo clarinetto anche Mozart; Flaminia Cuzzoli, una Ofelia che – vittima inconsapevole di un gioco ordito dagli altri – si tuffa, senza paura, nelle acque dove troverà la morte; Michelangelo Dalisi, figura imperturbabile ma anche sarcastica che dà il volto ai due personaggi più meschini del dramma, Polonio e Osrick; Francesca Cutolo, regina impassibile che piano piano ritorna bambina; Ludovico Fededegni, il Laerte che inconsolabile tiene in braccio la sorella morta ma che accompagna anche emotivamente, con il pianoforte, le vicende in scena; Francesco Manetti, re infido vittima dei suoi stessi orribili marchingegni, e Fabio Pasquini, che si proietta in ben sette personaggi.
Latella ora porterà le sue nuove regie all’estero, visto che noi, in Italia, non siamo stati capaci di affidargli la direzione di un teatro nazionale, preferendogli spesso mediocri attori televisivi e cinematografici.
Hamlet
di William Shakespeare
traduzione Federico Bellini
drammaturga Linda Dalisi
regia Antonio Latella
scene Giuseppe Stellato
costumi Graziella Pepe
luci Simone De Angelis
musiche e suono Franco Visioli
con Federica Rosellini, Anna Coppola, Michelangelo Dalisi, Francesca Cutolo, Fabio Pasquini, Francesco Manetti, Ludovico Fededegni, Stefano Patti, Andrea Sorrentino, Flaminia Cuzzoli
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
durata:
prima parte: 3 ore e 10′ più 20′ di intervallo
seconda parte: 1 ora e 50′ più 20′ di intervallo
versione integrale 5 ore e 40′ più un’ora di intervallo
Visto a Milano, Piccolo Teatro, il 27 giugno 2021