
Nell’atmosfera sempre accogliente di Sansepolcro, il festival Kilowatt è ogni anno di più parte integrante del contesto estivo urbano, mescolandosi al quotidiano degli abitanti e offrendo motivo di orgoglio e partecipazione.
E’ qui che ci apprestiamo a seguire una delle serate di questa edizione. Non vi parleremo del caldo, visto che è estate ed è argomento talmente inflazionato e dibattuto… E poi a Sansepolcro abbiamo di certo affrontato giornate molto più afose.
Di questa giornata resterà invece impressa soprattutto una cosa. Quando rientriamo in albergo e premiamo il tasto del telecomando per la rituale visita al Televideo sui canali Rai, nella sezione Culture si parla proprio del Kilowatt Festival. E questo, ai nostri occhi, grazie senz’altro a un buon ufficio stampa, vale ben più di un Ubu. Perché Televideo è Pravda, “parola verità” come cantava qualche anno fa Giovanni Lindo Ferretti.
Ma veniamo ai tre lavori a cui abbiamo assistito, rigorosamente scelti anche quest’anno dai Visionari, che hanno introdotto ogni messinscena con precisione e accuratezza.
Si parte con la danza: “(Zero) work in progress” di Elisabetta Lauro e César Augusto Cuenca Torres, Premio Equilibrio 2015, si rivelerà essere il più riuscito della serata.
Il lavoro è compatto ed essenziale, caratterizzato da una scenografia minimale: un piccolo mucchio di terra, isola minuscola a contenere le figure intrecciate dei due danzatori, esplode a poco a poco sulla scena, arricchendo l’esperienza sensoriale dello spettatore anche a livello olfattivo.
Quel piccolo cumulo di terra inizialmente circoscritta inizia così a dilatarsi, a ‘vivere’, attraverso i continui, circolari e dinamici movimenti dei protagonisti, due figure simbiotiche di cui a malapena si intuisce il genere.
Pur nella sua brevità ed essenzialità, “Zero” si dimostra un lavoro riuscito.

La stessa cosa non può essere detta per i due spettacoli che seguono, “L’insonne” della compagnia Lab 121 e “Io muoio e tu mangi” dei Quotidiana.com, seconda tappa della trilogia “Tutto è bene quel che finisce (tre capitoli per una buona morte)”, di cui hanno da poco parlato a Klp.
Pur nella loro evidente diversità, i due lavori possono essere accomunati dalla tendenza a perdere di impatto e forza col procedere della messinscena. Come se a lungo andare mancassero della vivacità e freschezza iniziali, e venisse a sbriciolarsi la struttura portante, quasi come fosse esaurita tutta nella prima parte, col risultato di provocare una sorta di “noia” (absit iniuria verbis) in chi assiste.
“L’insonne” (vincitore In-Box 2015) è spettacolo assai ambizioso. La scenografia è imponente ed è costruita minuziosamente, avvalendosi di un cubo trasparente che offre giochi di ombre e al contempo è contenitore per lo svolgersi della storia.
Questa, tratta da “Ieri” di Agota Kristof, parla del morboso e violento amore tra due fratellastri, Sandor e Line, separati nell’adolescenza, che si ritrovano all’estero quando le loro vite hanno preso due strade differenti.
Nella messinscena, che vede alla regia Claudio Autelli, sembra esserci una sorta di mancanza di amalgama tra scene, attori e regia, come se i tre elementi – soprattutto nella seconda parte – seguissero tre sentieri distinti, registri separati, con l’effetto di restituire un’atmosfera troppo ricca di pathos e far sì che nel finale, questa drammaturgia ispirata al romanzo della Kristof tenda addirittura verso il melodramma, dove tutto pare troppo enfatico. In questo certo non è d’ausilio la recitazione di Alice Conti e Francesco Villano.
Anche il lavoro di Quotidiana.com sembra perdere di intensità dopo la prima parte.
Secondo capitolo della loro trilogia sulla Fine, è una pièce che finisce col non prendere una direzione precisa e rimanere come “sospesa”, quasi esitante su dove andare a parare; e questo dispiace, perché Roberto Scappin e Paola Vannoni sono due autori interessanti.
In questo “Io muoio e tu mangi” ci si perde a causa del voler dire troppo, toccare troppi temi, giocare troppo con le parole, sfiorare troppi argomenti (primo su tutti l’imperante cattolicesimo nazionale), e si è spesso traditi dall’esigenza di citazioni colte o caustiche, quasi ad esibire una sorta di “intellettualismo” che è volontà dichiarata della compagnia combattere.
Cuore dello spettacolo è la “riflessione affilata sulla pietas collettiva che dovrebbe assecondare la richiesta di una dolce morte”, raccontata attraverso la vicenda di una figlia alle prese con gli ultimi giorni dell’anziano padre, ricoverato in ospedale.
Ma si vuole dire e sottolineare troppo, col rischio di perdersi. Servirebbe forse più semplicità.
Tuttavia il pubblico sembra apprezzare e molto. Si ride da subito, addirittura non appena la protagonista, Paola Vannoni, si manifesta in scena coperta con un lenzuolo bianco. E così via quasi per tutta la durata del lavoro.
Ma, lasciatecelo dire, che noia tutta questa complicità! Che “fastidio” tutte queste continue risate, più di tutto quando da ridere non ci sarebbe. Dopo pochi minuti verrebbe voglia di alzarsi e liberarsi di questo esercito di spettat/attori, pronti a rispondere con sghignazzi sonanti ad ogni azione scenica. Ma si sa, a teatro, “rideo ergo sum”.
Noi non combattiamo la necessità di un intellettualismo colto e sarcastico, ci opponiamo all’incapacità di coloro che non sanno alzarsi dalla sedia e abbandonare il luogo, perché si sa, manducem ergo sum. La semplicità che tu reclami… che noia tutta questa noia a cui ci si auto obbliga. La prossima volta esci dalla sala mostrando la tua uggia e vai a raccogliere la sacrosanta genuinità nei tanti luoghi che ti saprà offrire la città (ad esempio il cimitero).
Credo sia questo l’unico nostro lavoro in cui il tema è preciso e dichiarato: il diritto all’eutanasia. Tutta la drammaturgia ruota attorno a questo nucleo, e quando Menini scrive “voler dire troppo, toccare troppi temi, giocare troppo con le parole, sfiorare troppi argomenti…” mi fa sorgere il dubbio che abbia fatto un altro viaggio o abbia una limitata capacità di cogliere e interpretare connessioni e rimandi.
I “troppo” che dissemina in una riga di testo sono un po’ troppi se buttati lì senza un approfondimento, che ci si aspetterebbe da chi ha la pretesa di fare questo mestiere. Troppo rispetto a cosa? C’è un’insofferenza di fondo nel suo “Ma, lasciatecelo dire (qui si è pure sdoppiato), che noia tutta questa complicità! “, come se l’adesione del pubblico fosse di per sé un elemento a sfavore e causa della sua irritazione. Se la funzione del critico è quella di medium tra lo spettatore e l’artista, come può riuscire nell’intento Menini che ostenta noia e insofferenza quando questo incontro si compie? Certo prendere coscienza della propria inutilità può essere destabilizzante. E far scaturire queste cadute da intellettuale nevrotico ” Dopo pochi minuti verrebbe voglia di alzarsi e liberarsi di questo esercito di spettat/attori, pronti a rispondere con sghignazzi sonanti ad ogni azione scenica.” che addirittura (per usare una delle sue espressioni dall’onomatopea scandalistica) accusa noi di esibire “una sorta di intellettualismo” (dove “sorta” starebbe per…?). Ben vengano le critiche pertinenti e anche dure da chi sa di cosa sta parlando e soprattutto da chi è baciato dalla santa imparzialità. Sappiamo ormai tutti quali interessi si coltivino nelle trame di certa critica, e di quanto sia possibile pilotarla nelle firme incerte e desiderose di emergere a qualunque prezzo. Quindi non solo “che fastidio” e “che noia” ma “che schifo!”
Conosco Marco davvero da tanto tempo e ,a differenza di molti operatori e critici, ha la “grazia” dell’autenticità e della schiettezza etica. Insomma, un onesto. Non mi piacciono i commenti; ma qui rispondo solo perché stimo il lavoro di roberto e paola e mi pare così deprimente parlare di cimitero e schifo in risposta a un articolo che – semplicemente – si accorge di quanto spesso accade nelle sale: confondere il teatro con lo spettacolo e quindi riderci su anche quando si dovrebbe stare in silenzio. E non è una critica agli attori, la mia. Ma ci vuole tanta pazienza.
Se penso al cimitero mi viene il desiderio immediato, (per nulla avvilente o desolante) di visitarlo. Li, c’è poco da ridere. E il teatro delle icone, delle date, dei ricami fioriti, dei cipressi sono uno spettacolo. I morti non tradiscono più l’esigenza dei rimandi istruiti o caustici, dove non si gioca con le parole, a parte qualche preghierina. il mio era un ironico invito ad abitare il luogo della semplicità.