Nella mente di Delbono. Il laboratorio della gioia

foto di Luca Del Pia
foto di Luca Del Pia

Gli applausi sono lunghi, insistiti, gruppi di spettatori si alzano in piedi quasi subito, e le chiamate in proscenio sono numerose. Non solo, anche a scena aperta, fin dall’inizio, dopo un pezzo lirico o un passaggio particolarmente intenso, dopo un’allusione a qualche vezzo personale dell’autore/attore, gli applausi zampillano da questo o quel palchetto, dalla platea, a grappoli contagiosi.
Eppure “La gioia”, se Pippo Delbono non fosse Pippo Delbono, avrebbe dovuto essere fischiato aspramente, per coerenza con il carattere stesso dello spettacolo. Per completezza.

“La gioia” è un lavoro nato nel 2018, che nella sua storia si è incontrato con la morte di Bobò, l’attore-amico di Delbono, per il quale erano previste più scene. Ed ecco allora che «La gioia rinasce dalla morte di Bobò», dichiara l’autore, e in diverse occasioni la vocina dell’anziano reduce del manicomio di Aversa tòrta come un ramo di vite, riecheggia in sala – ormai solo registrata – al modo di un conturbante richiamo alieno.

La struttura generale del lavoro è rapsodica, non vi è un preciso percorso di temi, funziona per giustapposizione e flash. È un centone di scene che sfruttano alcuni dispositivi (la gabbia, il tango, il grido insistito, un certo uso spregiudicato della musica colta) già presenti in altri lavori di Delbono, e che costituiscono lo scheletro del suo stile. Scene sempre contraddistinte da una ricercata bellezza visiva, la cui forza è pari solo all’ostentazione con cui si piazzano sulla scena, anche grazie alle luci affettate e scaltre di Orlando Bolognesi. Alcuni esempi: una strobo di controluce a cui si fronteggia un seguipersona, a intercettare e staccare dal fondale nero personaggi dell’orrore, fatine, sorte di uomini di latta alla Mago di Oz, naufraghi nella tempesta del palco e poi giù in platea; una flotta di barchette di carta che lentamente si compone sul palco, allargandone improvvisamente le proporzioni, bagnata dal blu dei tagli in quinta; un tappeto di foglie secche disseminate, delimitato poi da una siepe di meravigliosi fiori, opera di Thierry Boutemy, che calano anche dall’alto in colonne appese oltre il boccascena; un cumulo di stracci (Mimmo Paladino?) a cui Gianluca, uno degli attori della compagnia, si appoggia, vestito da Pierrot; una beckettiana panchina di legno, solitaria, bagnata da un piombo di luce nello scuro attorno…

Su queste scene non manca mai la voce off di Delbono, in costume da sé stesso, camicia normale, pantaloni e microfono a gelato, che le sottotitola con poesie, qualche “furto” letterario (il Tolstoj, fra gli altri, de “La morte di Ivan Il’ič”) e qualche pensiero sul tema, come sempre polarizzati dal proprio universo personale, tra idiosincrasie, vita di famiglia e di compagnia.

L’edonismo smaccato e la gratuità delle smaglianti costruzioni sceniche – insieme alla parzialità del testo che le sottende, spesso limitandosi a tradurle – costituiscono un incontro che spesso riesce scollato. Nel parlato è evidente la rinuncia alla volontà di spiegarsi e ci si rintana nell’ossessività della ripetizione, percussione di parola schietta, nuda, senza articolazione: parole secche e visioni stucchevoli, un mondo egocentrico, chiuso e slabbrato insieme, popolato di fantasmi – fantasmi ulteriori rispetto a quelli che si aggirano in sala in costumi puerilmente fellineschi.

Forse è arrivato il momento di considerare il lavoro di Delbono non più per i suoi risultati, che non sembrano in sensibile evoluzione, ma per il suo carattere di instancabile tentativo fenomenologico: in “La gioia”, più che mai, attraverso un vocabolario minuto e raffinato, ma come sempre fatalmente imperfetto, Delbono opera una scrittura scenica della sua interiorità vera restituendoci un’opera sghemba, melensa ma sincera, per quel che può interessare, e nella misura in cui gli strumenti si accontentano di nuove combinatorie senza affinarsi o evolversi. Un’opera lirico-gnoseologica in cui le larve, le nostalgie, i patetismi, i ricordi, le patologie e i tormenti personali sono evocati e scorrazzano sulle tavole proprio come nello spazio della mente dell’autore, riconoscibili non solo nella evocazione visiva, non solo nell’oggettività impotente del testo, ma nel penoso cozzo fra le due. In ciò è Pippo Delbono.

“La gioia”, un testo come gli altri suoi imperniato sul sé, è individualista, retorico e brutale e riesce detestabile. Ma è interessante se spiato nel suo laboratorio. E la razionalità, cacciata dalla porta, rientra dalla finestra, posizionandosi con lo spettatore attento un attimo prima dell’osservazione patologica. Come si farebbe per certo Dino Campana, il Campana meno controllato, il pazzo.

Ecco, la contestazione del pubblico d’innanzi alla sfrontatezza di una simile operazione, notevole per quanto fallimentare sul piano artistico, l’avrebbe certificata, ingigantita, avrebbe fatto di un’opera sgradevole una sfida forte e straziante. E invece aleggia il fantasma stolido della simpatia, del tormentone, nefasto.

LA GIOIA
uno spettacolo di Pippo Delbono
con Dolly Albertin, Gianluca Ballarè, Bobò, Margherita Clemente, Pippo Delbono, Ilaria Distante, Simone Goggiano, Mario Intruglio, Nelson Lariccia, Gianni Parenti, Pepe Robledo, Zakria Safi, Grazia Spinella
composizione floreale Thierry Boutemy
musiche di Pippo Delbono, Antoine Bataille, Nicola Toscano e autori vari
luci Orlando Bolognesi
elettricista Orlando Bolognesi/Alejandro Zamora
suono Pietro Tirella/Giulio Antognini
costumi Elena Giampaoli
capo macchinista e attrezzeria Gianluca Bolla/Enrico Zucchelli
responsabile di produzione Alessandra Vinanti
organizzazione Silvia Cassanelli
direttore tecnico Fabio Sajiz
produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione
coproduzione Théâtre de Liège, Le Manège Maubeuge – Scène Nationale
COMPAGNIA PIPPO DELBONO
si ringraziano Enrico Bagnoli, Jean Michel Ribes, Alessia Guidoboni – assistente di Thierry Boutemy e Théâtre de Liège per i costumi
foto di Luca Del Pia

durata: 1h 20’
applausi del pubblico: 3’

Visto a Roma, Teatro Argentina, il 9 marzo 2019

 

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