
Seduto su cuscini e tappetti disposti in semicerchio, le porte di sala rimaste aperte, il pubblico è accolto come l’invitato ad una festa in un salotto disordinato dal quale è libero di entrare e uscire, di cambiare posto, sgranchirsi le gambe, accucciarsi, sdraiarsi, mettersi comodo.
Non solo. Ben vengano gli ultimi arrivati, i curiosi che si aggiungono a metà spettacolo, intrufolandosi sul fondo per capire cosa stia succedendo in una stanza che manda musica pop a tutto volume. I movimenti, i gesti, le parole che i corpi scenici pronunciano in quel preciso momento, in quello spazio, esistono a prescindere da ogni spettatore, ci vuole dire Spångberg.
Con disarmante immediatezza, l’innata strafottenza dei fenomeni naturali (che mi sia concessa una nota di colore in un contesto che sfrutta l’immaginario main stream) si trasforma nella potenza scenica di un gioco che, se nelle fattezze si rivela totalmente anti-naturalistico, plastico (nel senso di sintetico, artificiale) è invece libero e naturale a sé stesso nel suo evolversi.
Ma facciamo un passo indietro.
Se l’atmosfera “di sala” è quella di un salotto un po’ borghese, la scena vera e propria è il luogo di un’esplosione di oggetti inneggianti il superfluo, un caos di colori, odori dolciastri (sì, anche), che si sparpagliano su teli cerati e sottili disposti sul “palcoscenico”: tubetti di shampoo e balsamo, lucidalabbra, collane di perle finte e fluorescenti, maglie e pantaloni da paninari, rockettari, discotecari, da “giovani nella notte”, scatolette in latta decorate o rosa shocking, sigarette, profumi, scarpe dai tacchi improbabili, reperti kitch scomparsi dagli anni Novanta.
Centrale nel semicerchio composto dal pubblico, un cantante seduto a gambe incrociate di fronte ad un computer Macintosh fa partire una musica tenue, sospirata, lievemente malinconica, riproducendone dal vivo il testo e mollegiando sul ritmo. Non cambierà posizione per quasi tre ore consecutive, circondato da bicchieri d’acqua e brocche di tè per riposare la gola.
Tra i cinque presenti in scena, anche Ludvig Daee, di cui avevamo parlato durante Interplay per l’autoironico “MM”.
Separati l’uno dall’altro in diversi angoli dello spazio, i danzatori si alternano in brevi coreografie lente e manieristiche e in gestualità paraboliche, lunghe, eteree.
Si spalmano sui capelli quantità abbondanti di balsamo, da cui gli odori di cocco e vaniglia che impregnano il naso di chi è seduto nelle prime file, si vestono e si svestono, si “addobbano”, si profumano o spruzzano con evanescenza aromi agrodolci nell’aria. I volti dipinti di colori sgargianti, maschere bambinesche e dita verdi, adesivi e brillantini sulle braccia, sulle gambe, sui colli lucidi di sudore.
E’ la noia anemica prodotta dall’abbondanza, dall’inutile, dal superfluo a muovere per inerzia i loro sguardi ieratici, persi nel vuoto emozionale, nel regno di pace dei sedativi.
La prima metà dello spettacolo trascorre nella gratuità di movimenti e quadri alternati e ripetuti a comporre un mantra dagli effetti “stupefacenti”: ci si abbandona al nulla che avviene, ci si distrae (ci si sdraia), si ritorna con gli occhi puntati sulla scena: l’omogeneità delle luci “di servizio”, accese sull’intera sala, avvolge tutti in un unico e non dividibile contesto.
Poi, lentamente, la musica aumenta di volume e, pur fedele alle tonalità pop dell’inizio, s’intensifica nel ritmo, fino alla carica sensuale di “Shine Like a Diamond” ripetuta in loop a effetto tortura.
Cambiano i volti: gli sguardi si fanno complici e maliziosi, le movenze si sciolgono in coreografie che attingono all’erotismo lascivo delle piste da ballo. Si fomentano con urla appena accennate, si strizzano l’occhio a vicenda. Endorfine che salgono, potenziano i gesti, vivificano i corpi, li sottraggono alla mollezza parassitaria del primo tempo.
Anche la seconda ora scorre, e anche i volti del pubblico cambiano: cosa stia succedendo in scena hanno ormai smesso di chiederselo tutti. Alcuni, catturati in uno stato di trance, non reagiscono da ore al formicolio delle gambe e rimangono seduti nella stessa scomoda posizione senza accennare stanchezza; altri escono per una pausa e tornano con provviste d’acqua; accanto a me un signore occhialuto e dal volto simpatico gioca a domino con gli oggetti a bordo scena.
Finisce quasi per stanchezza, “The Nature”, come una pioggia torrenziale che lentamente si affievolisce dopo un temporale di sfogo le cui goccie si fanno sempre più rade.
E sempre più abbozzati si fanno i gesti, spezzando la magia della finzione che rende la messa in scena intangibile, sospesa in un’aura sacrale: i cinque interpreti si fermano a bere, si scambiano un paio di battute, ricominciano, si esauriscono, si aprono qualche lattina di birra.
La musica si abbassa, loro rallentano, si fermano.
Nessun finale, nessun inizio, nessuna vera (inter)azione, “The Nature” scorre come un flusso continuo e provocatorio senza origine: geniale, brillante, fastidioso e stridente disgusta ed entusiasma, nausea ed esalta, diverte e annoia scatenando ogni possibile contraddizione emotiva.
Per chi ha avuto il coraggio di resistere, è uno spettacolo disarmante, che tace ogni presa di posizione, che svilisce ogni elogio e ogni critica, che lascia muti e narcotizzati (succubi per le ore a seguire di ritornelli pop rifiutati per una vita intera ed ora integrati nella memoria).
Perfetti ed eleganti nella tecnica e nella pulizia del gesto, belli ed eternamente presenti a sé stessi, gli interpreti di Spångberg sorridono compiaciuti e fanciulleschi dopo quasi tre ore ininterrotte di “performing”.
Si prendono gli applausi con stanchezza e soddisfazione.
Tutto un po’ indie, è vero, ma da premiare per l’assurdità inaspettata e per il coraggio del pensiero eccentrico. Benchè resti il dubbio sul fatto che “The Nature” sia una celebrazione della superficialità barocca dei baccanali, dell’abbondanza e della volgarità dei giorni nostri, piuttosto che una critica, lo schiaffo in faccia l’hanno dato e anche bello forte.
THE NATURE
di e con: Linda Blomqvist, Ludvig Daae, Yoann Durant, Sandra Lolax, Mårten Spångberg, Rebecka Stillman,Hanna Spångberg
realizzato con il supporto di:The Swedish Art Council, The Swedish Arts Grants Committee, Swedish Institute, Stockholm City Cultural Council
in collaborazione con MDT Stockholm e PAF
co-prodotto da Santarcangelo •12 •13 •14 Festival Internazionale del Teatro in Piazza
durata: 2h 40′
applausi del pubblico: 3′
Visto a Santarcangelo di Romagna, Hangar Bornaccino, il 19 luglio 2014
Prima assoluta