La fine di un tempo. Per il teatro italiano sicuramente la scomparsa di Franco Quadri segna uno spartiacque con un universo di regole scritte e non, che governavano il sistema nazionale.
Quadri era forse l’emblema di quello che in diversi percepivano come un “sistema” verso il quale, soprattutto nell’ultimo decennio, non mancavano segni di irrequietezza, anche in ragione del fiorire di un numero di esperimenti sul territorio che il sistema dei teatri stabili non governava più, ma che ancora oggi si moltiplicano, spinti da un nuovo gusto, da sensibilità verso nuove commistioni fra linguaggi, in uno scenario sempre più permeabile alle arti performative.
Perché tutto questo preambolo per parlare di uno spettacolo, vi chiederete?
Perché l’operazione di Rosario Lisma, che nel 2008 a Nuove Sensibilità – Eti risultò vincitore, parla proprio di questi temi.
La trama tragicomica racconta di un gruppo di quattro appassionati teatranti, dilaniati dalle ansie dei teatrini da sottoscala (che in Italia rimangono comunque un gran numero), che sta allestendo uno spettacolo sulle organizzazioni di stampo brigatistico degli anni Settanta.
Il gruppo fa ricerche storiche, si affanna a cercare la forma scenica e la drammaturgica più adatta. Ma, al di là del fatto artistico, il cruccio è uno e uno solo: la compagnia sa infatti che, nel putrido Sistema Italia, mai il loro lavoro avrà dignità, anche ove avesse riscontro di pubblico, se non sarà supportato da un sostegno della critica autorevole. E soprattutto se non arriverà il ‘Suo’ placet, quello di Marco Mezzasala, IL critico, “il mammasantissima, quello che atterra e suscita, che condanna e che consola”.
Nel 2008 questo personaggio fantasmatico, il Godot di cui la compagnia attende l’arrivo per una replica, si chiamava Ciccio Rotondi…
Adesso la storia è cambiata, un tempo è finito, e anche solo il cambio del nome di un personaggio la dice lunga.
Molta parte del nostro teatro, specie quello fuori dai circuiti ufficiali, vedeva, anche per comodo, in Quadri e nel Quadrismo, sia il bene che il male.
Cosa spinga poi un sistema a vedere in un’unica persona la causa di un male collettivo è un fenomeno tutto umano e sociologicamente molto italiano. Siamo una nazione in cui la spinta per forme di governo dal tratto monocratico e di idolatria dell'”Uno” sono assai diffuse, ma di nessuna consistenza sarebbero gli Uni se non fossero supportati dagli Altri, da un blocco sociale, decisionale, una sorta di ventre molle della convenienza che preferisce non mettere mai in discussione le regole, specie quelle non scritte.
Quindi, ove il sistema che ha governato il teatro italiano fosse malato, sicuramente questo non potrebbe essere dipeso solo dall’Uno, ma anche dalla pluralità, il più delle volte anonima, spesso mediocre, di quelli che Pajetta definiva “servi sciocchi”.
Questo genere di riflessioni sono quelle che condiscono la drammaturgia di Lisma, che incidentalmente ci spiega anche la sua scelta profondamente naturalistica di tornare a raccontare i personaggi, rivendicando necessità e urgenza, nel teatro di oggi, di proporre qualcosa che racconti con semplicità e in modo chiaro e intelleggibile il reale.
La trama si sviluppa, fra battute e amarezze, fino all’ultima replica dello spettacolo che i teatranti portano in scena, alla quale Mezzasala ovviamente non parteciperà, dando poi stimolo per quella che, nell’idea del collettivo artistico, diventerà “la soluzione finale”.
Il tutto è godibile, la parodia del “sistema della critica” è perfetta, con la ridicola misurazione nelle recensioni degli aggettivi prima del nome, che danno risalto ad una prova: “intenso”, “efficace”, o l’assurda menzione “fra gli altri, di”. Tutto quello a cui l’attore e la compagnia si appendono per sperare in un domani migliore. Ci sono poi le telefonate ai critici famosi per perorare una visita: “Verrà? E scriverà?”.
Questo penoso scenario di questua è spesso la norma per chi conosce il Sistema Italia dall’interno, e secondo chi scrive non ha a che fare né con Quadri né con il Quadrismo, volendo designare così uno stile di governo di cui sicuramente il grande critico è stato emblematico rappresentante, forse di autoreferenzialità ma, vorrei dire, anche di dedizione.
Perché, e questo poco emerge dal lavoro, Quadri e grandissima parte dei critici, giovani e no, che opera in Italia, nei sottoscala ci va.
In tanti, tra noi ‘operatori’, abbiamo incontrato a più riprese Quadri in teatrini sgarruppati e garage di periferia, in Italia e all’estero. E per vedere lui, vuol dire che c’ero anche io (e magari altri). E che quindi eravamo per lo meno in due.
Certo, a Milano era più facile, ma è la prova che l’attenzione per la ricerca del talento è sempre viva nella curiosità di chi veramente vive per assistere al miracolo delle luci che si alzano nel buio; e che chi è al di qua del foglio bianco, soggetto professionale sempre meno pagato e riconosciuto, spesso lo fa per pura passione, come nel caso di chi scrive (speriamo anche nell’avvento del pane, prima o poi).
Ciò mi fa pensare a come sarebbe un’operazione al contrario, raccontando tutto quello che le compagnie non vedono e i critici sì, degli attori e dei registi che non vanno mai a teatro, che conoscono il teatro, la letteratura, l’arte per sentito dire, che non si appassionano veramente se non a loro stessi e ad una gloria tutta personale e poco grotowskiana, e reclamano un diritto a fare arte a spese della collettività che ogni essere umano dovrebbe poter rivendicare, ma senza accettare, nella maggior parte dei casi, pareri critici di occhi attenti e aperti.
Il racconto di telefonate o mail infuocate di artisti, spesso arroganti, per togliere dal server questo o quell’articolo, per cambiarlo, per non condannare una carriera, per stroncare una vita tutta dedita a… , perchè lei non ha capito lo spirito…
Insomma: a buona parte di chi vive il mondo teatrale italiano dalla parte del palcoscenico manca spesso il coraggio, la spudoratezza, l’ardimento di reclamare il “pane e rose” degli anni Settanta, l’impulso situazionista, la capacità di rischiare senza rete e di fottersene, quando serve, di tutto e tutti.
Non fino a tagliarsi un orecchio come Van Gogh, magari, ma con la potenzialità del gesto forte, importante e soprattutto sostenuto da un’idea artistica non volgare e consunta.
Come finisce la storia di Lisma e, in fondo in fondo, ove fosse utile a qualcuno, cosa pensiamo dello spettacolo? Il finale, ovvio, non lo raccontiamo.
Il lavoro è gradevole anche se un po’ lungo. Si compiace, magari, della “presa” che il tema ha sul pubblico, sia quello consapevole a cui è eminentemente rivolto, sia a quello meno consapevole ma che conosce il putridume italico, che sa della logica della commendatio e segue la vicenda, raccontata per sketches, con partecipazione. La trama è costruita in modo interessante sul doppio ritorno delle vicende del teatro nel teatro, così che la compagnia e i brigatisti vivono lo stesso destino e anche lo stesso fallimento.
Il reclamato naturalismo di Lisma, che si mantiene comunque equilibrato, a volte cerca la risata con episodi da commedia dell’arte, come l’inciampo sulla sedia e altri espedienti che nel complesso risultano superflui. Come pure il testo, che alla lunga soffre di didascalia e insistita caratterizzazione di alcuni personaggi (come il tonto del gruppo): insomma rimane nel divertente senza arrivare però al grande respiro, come magari in lavori dal tratto più surreale ma di parola e personaggio (come quelli, ad esempio, di Scimone o Paravidino), se si vuol rimanere intorno a suggestioni checoviane (così a Lisma verrà il fegato gigante per i paragoni espliciti, e penserà “ma che stronzo: per forza, sono linguaggi e forme narrative diverse, si vede che non ha capito un cazzo!”).
Quello che non c’è ne “L’operazione”, a nostro avviso, è l’assenza.
E’ tutto detto. Troppo. Perfino il critico Mezzasala, che invece che rimanere muto, come avrebbe forse dovuto per essere efficace, alla fine parla. Parla in un modo un po’ ridondante, sottolineando il già detto. Nulla aggiunge e nulla toglie.
La considerazione vale per il finale, ma anche per una serie di altre occorrenze insistite, che fiaccano nella parte centrale lo slancio di un testo che, proprio perché ben pensato, avrebbe bisogno di guardarsi con più leggerezza e meno bisogno di dire tutto, come di chi, zitto per anni, sbotta e dice a fiume.
Non sto alludendo nello specifico di Lisma, cui va il merito di aver avuto la forza di parlare per conto di molti che, silenziosi e pecoroni, non si sarebbero mai sognati di alzare il dito per indicare pubblicamente, anche in forma irridente, l’ex Ciccio Rotondi, ora Marco Mezzasala.
E tantomeno di proporre una drammaturgia del genere ad un concorso.
Eppure, quello stesso Sistema Italia così malato e cieco, che Rotondi/Mezzasala controllava passo a passo, a quello spettacolo ha dato un premio nel 2008. E neanche dalla Proloco di Roccacannuccia. Ma dall’Eti, per uno dei concorsi di maggior visibilità per i giovani.
C’è, quindi, qualcosa che non funziona fino in fondo nell’impianto logico…
Ma siamo in Italia. E’ normale.
“L’operazione” è comunque uno spettacolo divertente, godibile e ben interpretato, “fra gli altri, dagli intensi ed efficaci Ugo Giacomazzi, Rosario Lisma, Andrea Narsi e Andrea Nicolini”.
L’OPERAZIONE
di Rosario Lisma
con: Ugo Giacomazzi, Rosario Lisma, Andrea Narsi, Andrea Nicolini
regia: Rosario Lisma
durata: 1h 50′
applausi del pubblico: 2′ 05”
Visto a Milano, Teatro Leonardo, il 6 aprile 2011
articolo interessante grazie veramente. fa riflettere (non è detto ironicamente)
Cosa voglio dire? Ho visto L’Operazione ad Andria, il giorno in cui Franco Quadri è scomparso. In tutta sincerità sono rimasto umanamente molto deluso dal fatto che la Compagnia non abbia in alcun modo ricordato la figura di FQ. Sarebbe stato un gesto, come dire, elegante.
Riccardo Carbutti