L’esilarante sequel dell’“Apocalisse tascabile” stigmatizza una Sinistra quiescente, antagonista di sé stessa
Un urlo irriverente all’abbrivio. Tubi sparacoriandoli alla fine. Pistole ad acqua, e uno stendino in plastica al centro della scena, illuminata da luci arancioni o rossastre.
È uno spettacolo pirotecnico “La sparanoia (Atto unico senza feriti gravi purtroppo)” di Niccolò Fettarappa, anche regista e attore in scena con Lorenzo Guerrieri al Teatro Franco Parenti di Milano.
Un ritratto impietoso della generazione Z. Un giudizio sferzante anche sui padri che l’hanno preceduta, sul sistema Italia e sull’attuale classe dirigente.
L’assenza di progettualità. La vita in monolocali di un metro quadro che costano anche l’anima; e per separare cucina abitabile, soggiorno, divano-letto, bagno e scarpiera occorre più coraggio che fantasia.
Vite solitarie. Atomi concentrati. Rivoluzioni immaginarie: una volta si usavano le molotov, ora le cannucce del “succhetto”. Ragazzi schiacciati da mamme-drone che tutto controllano. Soffocati da uno stato in divisa e manganello. Con l’ossessione dello Spid. Ricorrendo alla psicologa quando pane e nutella non bastano a esorcizzare le angosce.
Stupisce “La sparanoia”, dissacrante opera seconda del duo Fettarappa-Guerrieri dopo il celebrato “L’apocalisse tascabile”. Ma il sequel, limato e rodato da otto mesi di repliche, è più incisivo dell’opera prima.
Il focus è sulla popolazione giovanile cresciuta da metà anni Novanta in poi. Figli ferini e mitomani della recessione. Generazione sfibrata da studi incompleti e impieghi aleatori. Che ha nel mirino passioni senza salario.
“La sparanoia” stigmatizza anche una sinistra timida al punto da essere pavida, antagonista solo di sé stessa. Un progressismo orfano della lotta di classe e delle battaglie del tempo che fu. Passato da “Bandiera rossa” a Jovanotti. Che cita Marx e Adorno senza averli mai letti. E baratta Fidel con uno scaldabagno.
Scontri, flash mob, manifestazioni, addio. Le ordinanze e i divieti del sindaco imbrigliano una generazione smarrita, orfana, smorta, forse non del tutto defunta, certo in terapia intensiva. «Dio è morto, Marx pure, e anche io non mi sento molto bene», precisava Ionesco. E qui affiora, nell’ironia intelligente, nelle risate a crepapelle, nell’energia sferzante, un senso d’inanità, e la drammatica futilità degli sforzi di fronte alla dissoluzione delle speranze. Ecco il riparo nell’assurdo e nell’umorismo. E la certezza che ogni azione è velleitaria di fronte al deflagrare delle cose.
Scenografia essenziale. Al centro lo stendino (in “Apocalisse” c’era il carrello della spesa) diventa botola, galera, anfratto, filtro per l’imperscrutabilità di un potere burino e manesco. Quattro mini tralicci agli angoli del palco definiscono il perimetro della scena. Alla sommità, i lampeggianti della polizia danno un senso d’accerchiamento. La paletta della Digos è super-io che avvia una sculacciata, in un rituale sadomaso in cui vittima e carnefice colludono.
Il senso d’asettica autorità lo ritroviamo anche nei costumi grigi dei due attori: quando essi ambiscono a uno status nel mondo degli adulti, si corredano di mastodontica cravatta.
Un’età dimissionaria da sé stessa. Fettarappa e Guerrieri la vivisezionano. I trent’anni alle porte sono una iattura. Paura di osare: dalla sinistra antagonista a quella triste il passo è breve. Pensiero debole. Anni così fragili da polverizzarsi. L’autorità non è minaccia ma sicurezza, anche se repressiva e violenta.
Lo show è un botta e risposta senza soluzione di colpi. Una scrittura vivace, naturale, pungente. Un’invettiva dinamica e icastica. Un testo funambolico e ipertrofico. Un uso sapido dei dialoghi, dei tempi e delle pause. Ping pong parolaio, che annichilisce e ribalta. Un romanesco trascendentale, disarticolato e smussato. Artifici retorici: anafore, bisticci semantici, analogie, allusioni, metafore. Parole storpiate con ironia: “la rassegna stanca”, “Il resto del merdino”.
Bastano pochi ingredienti scenici a questa regia condivisa per sbaragliare il pubblico, se c’è un’overdose di fantasia e le energie attoriali sono esorbitanti. Dove c’è un tappetino c’è casa: Fettarappa monta in groppa al compagno, e sale al piano di sopra; si sgancia, e torna al piano terra; alza una gamba, e rende l’angustia di una monolocale. Siede su un seggiolino mignon, e regredisce a un’infanzia deresponsabilizzata.
Il sale e il pepe nella drammaturgia spezzettata, atomizzata, deflagrante. Un lavoro cinico e dotto (contributo intellettuale di Christian Raimo), brillante e grottesco. Il ritratto di un’epoca ispida, pavida, quiescente. A metà tra ingenuità bambinesca e arguzia calcolata. Uno stile che attinge a Verdone, Moretti, Villaggio e al teatro dell’assurdo. Soprattutto, un affresco vivacissimo del mondo giovanile. Un’auto-analisi spietata, sardonica, esilarante, per dire cose più sensate di quelle sputate dalla bocca di politici tromboni, rappresentate dalla penna di sociologi e filosofi autoreferenziali, di pedagogisti e psicologi sussiegosi.
La sparanoia
Atto unico senza feriti gravi purtroppo
progetto ideato e scritto da Niccolò Fettarappa
regia Niccolò Fettarappa e Lorenzo Guerrieri
con Niccolò Fettarappa e Lorenzo Guerrieri
contributo intellettuale di Christian Raimo
produzione SARDEGNA TEATRO – AGIDI
con il sostegno di Armunia Teatro, Spazio Zut, Circuito Claps, Officine della cultura
Rassegna La nuova scena a cura di Natalia Di Iorio
durata: 1h
applausi del pubblico: 3’
Visto a Milano, Teatro Franco Parenti, l’8 marzo 2024
Ottima recensione