Dal 2006 porta avanti una ricerca transdisciplinare sulla neurofisiologia dell’attore e dello spettatore, e attualmente è docente di studi teatrali e tecniche dell’attore al Département de Cinéma et Théâtre dell’Université Paul Valéry Montpellier 3. Quella da lui osservata è una prospettiva nuova ed affascinante; attraverso questa intervista abbiamo cercato di comprenderne caratteristiche e prospettive future.
Partiamo da una domanda in apparenza banale ma essenziale per inquadrare il campo di indagine entro cui ci muoviamo. Cosa hanno in comune il teatro e le neuroscienze?
Ciò che hanno in comune il teatro e le neuroscienze è essenzialmente la ricerca sull’essere umano. Sulle sue potenzialità, sulle capacità di stabilire e gestire relazioni. Non è un caso se questo interesse verso le scienze del cervello, sempre presente nelle culture teatrali, abbia avuto un nuovo slancio negli ultimi vent’anni: proprio in questo periodo, infatti, la ricerca neuroscientifica ha sviluppato strumenti nuovi e relativamente economici, capaci di osservare l’attività del cervello ‘in azione’. Ciò significa che recentemente alcune tecnologie, come la risonanza magnetica funzionale, hanno permesso un’osservazione del cervello in un intervallo di tempo ben definito, raffinando notevolmente lo studio della variabile temporale.
Inoltre si è ridotto anche l’impatto nocivo degli strumenti di misurazione, per cui anche soggetti sani possono sottoporsi a un numero limitato di scansioni di risonanza senza particolari pericoli. Questo ha rappresentato un’enorme innovazione per lo studio di quelle arti ‘time-based’, come teatro, cinema o musica. Ma non solo. Grazie ad una migliore osservazione delle variabili temporali, i neuroscienziati si sono accorti di quanto, in passato, le dinamiche relazionali della cognizione umana siano state sottovalutate.
Le neuroscienze oggi ci descrivono i nostri sistemi cognitivi come processi altamente relazionali. Funzioni come la percezione degli oggetti o del mondo circostante, ad esempio, sembrano oggi fortemente legati alla nostra relazione con gli individui con cui condividiamo il mondo circostante. In questo senso le arti performative, che sono per eccellenza le arti della relazione tra esseri umani, sono diventate agli occhi dei neuroscienziati un luogo prezioso di osservazione e di studio dei processi cognitivi.
Come sei arrivato a questi studi? Hai abbinato anche esperienze laboratoriali e di pratica teatrale?
Dal punto di vista universitario, mi sono formato in quello che era il Dipartimento di Arti e Scienze dello Spettacolo (ora Dipartimento di Storia dell’Arte e Spettacolo) della Sapienza di Roma. Ma questo percorso è stato arricchito da alcune esperienze all’estero, come il pilot run del Master Europeo in Science of Performative Creativity all’Università di Malta o il soggiorno Erasmus all’Università di Paris 8 Vincennes – Saint-Denis. Quest’ultima è stata anche l’università partner del mio dottorato, svolto nell’ambito di una cotutela europea tra la Sapienza e Paris 8.
La pratica teatrale è andata in parallelo coi miei studi fin dai primi anni d’università. Ho iniziato infatti col Teatro-Studio Vocabolo Macchia di Terni, e poi con la compagnia La Teatreria di Parigi, con cui ho avuto la fortuna di fare numerose tournée di teatro di strada sia in Europa che in America Latina.
Durante il dottorato ho avuto anche la fortuna di co-dirigere, insieme a Victor Jacono, il gruppo teatrale Laboratorio Emigrata, sciolto alla fine del 2012, quando ho deciso di spostarmi in Francia.
Le mie ricerche sono proprio il frutto di una triangolazione fra la pratica teatrale, gli studi teorici e la collaborazione con il dipartimento di Fisiologia e Farmacologia della Sapienza, con cui ho realizzato alcuni esperimenti sull’‘embodied language’ degli attori. Per questo i prodotti della mia ricerca non sono solamente scientifici ma anche artistico-pedagogici. Il Laboratorio Emigrata era nato, infatti, dall’esigenza di capire come e se i nuovi strumenti offerti dalle neuroscienze cognitive potessero nutrire anche il lavoro pratico dell’attore. Questo lavoro ci ha portati, tramite la pratica performativa, a ripensare alcuni esercizi provenienti da diverse tradizioni (dal training fisico dell’Odin Teatret alla biomeccanica teatrale), secondo una nuova ottica, svelandone alcune potenzialità fino a quel momento imprevedibili. In questo modo abbiamo sviluppato un particolare training che oggi ho l’occasione di sperimentare anche al di fuori del gruppo in cui è nato, grazie alle mie collaborazioni sistematiche con alcune scuole di teatro come il TNB di Rennes o l’ESADIB di Palma di Maiorca. Scuole che, tra l’altro, hanno deciso di inserire un approfondimento sulle neuroscienze cognitive nel programma pedagogico per gli aspiranti attori. Ma non solo, saltuariamente mi sono trovato anche a realizzare laboratori pratici per ricercatori e scienziati provenienti da istituti di ricerca interdisciplinari, come è successo al Center for Embodied Cognition della Stony Brook University (NY) lo scorso febbraio.
Ti possiamo definire uno studioso di teatro prestato alle neuroscienze o viceversa? E in questo approccio interdisciplinare, nuovo per l’università italiana e dalle prospettive molto interessanti, quali sono gli ostacoli che hai dovuto superare?
Se volessimo giocare al gioco delle definizioni, forse direi che sono uno studioso di teatro prestato al teatro. Nel senso che a un certo punto è diventato obbligatorio scegliere: se dedicarmi alla ricerca universitaria o al mestiere di attore o regista. Quando mi sono accorto che entrambe sono attività che non consentono una modalità part-time, ho scelto la ricerca universitaria, mantenendo uno spazio di training e ricerca performativa che non può essere, però, paragonato a chi del teatro ha fatto, con coerenza, il proprio mestiere. In questo senso mi sento uno studioso di teatro “prestato” al teatro. Tuttavia non ritengo il mio interesse verso le neuroscienze una deviazione rispetto agli studi teatrali, che al contrario hanno sempre avuto la necessità di “curiosare” in altri territori disciplinari per meglio studiare il teatro stesso: pensiamo agli incontri tra studi teatrali e antropologia, sociologia, psicanalisi, etc.
Il problema non si pone dunque quando si esplora una disciplina lontana, ma quando si pretendono da essa delle risposte. Le neuroscienze non sono capaci di dare nessuna risposta agli studi teatrali, ciò che possono fare è offrire delle nuove domande, delle terminologie diverse per esplorare la relazione attore-spettatore. Immaginiamo, ad esempio, quante volte a teatro sentiamo utilizzare concetti come “pensare per azioni”, “memoria corporea”, “conoscenza tacita”… Ecco, se leghiamo questi concetti alla nozione di ‘body schematic process’, recentemente proposta da Shaun Gallagher, ci accorgiamo di come a teatro tendiamo a utilizzare formule diverse per descrivere uno stesso processo. Processo che accomuna tutti gli esseri umani ma che, e questa è la mia ipotesi, nel caso del performer viene migliorato e affinato, dando luogo a una sorta di ‘body schema performativo’.
Se prendiamo queste considerazioni come esempio è possibile notare come le neuroscienze non abbiano fornito una risposta, ma delle terminologie e dei modelli più precisi per raffinare la domanda. Capire questo è già eliminare la metà dei luoghi comuni che immaginano le neuroscienze come una sorta di “deux ex machina” che arriverebbe a risolvere tutti i problemi riguardanti l’esperienza estetica. Idea chiaramente priva di fondamento scientifico, ma che ha generato una sorta di estremizzazione delle opinioni, tra chi è assolutamente contrario e chi invece guarda queste ricerche con curiosità. E questo, in effetti, mi ha creato e mi crea ancora qualche problema. Per fortuna, però, ho conosciuto anche studiosi che, assolutamente contrari qualche anno fa, hanno cominciato oggi ad affacciarsi a queste nuove prospettive.
Come nasce il volume “Le acrobazie dello spettatore. Dal teatro alla neuroscenza e ritorno”?
Il libro è nato dallo sviluppo delle idee emerse durante la mia ricerca dottorale. Una delle tesi principali del libro riguarda il fatto che lo studio dello spettatore non possa più essere studiato in modo “indipendente” da quello dell’attore (come è successo in passato, quando si usava somministrare agli spettatori questionari a risposta multipla alla fine dello spettacolo). Se l’essenza del teatro è la relazione, lo spettatore deve essere studiato nella sua continua relazione all’attore e allo spazio scenico. In questo senso le ricerche neuroscientifiche e filosofiche sull’intersoggettività sono state fondamentali.
Cosa succede nel “corpo-mente” dello spettatore a teatro?
Riassumere qui cosa “succede” sarebbe abbastanza complicato, ammesso che sia davvero possibile farlo. È possibile forse accennare ad alcuni elementi emersi durante la ricerca, elementi che potrebbero in qualche modo caratterizzare l’esperienza performativa dello spettatore. Alcuni riguardano, ad esempio, il modo con cui le azioni dell’attore “risuonano” fisicamente nei muscoli e nelle catene neuromotorie dello spettatore, stimolando l’ormai noto meccanismo dei neuroni specchio. Questo evidenzia come la base dell’esperienza dello spettatore sia profondamente muscolare, “incarnata” diremmo oggi. Il che significa, inoltre, che ogni esperienza spettatoriale è profondamente biografica, perché le nostre catene neuromuscolari vengono continuamente modellate dalle nostre esperienze. Esse sono in qualche modo il risultato dinamico di tutte le azioni che abbiamo realizzato nel nostro passato, il risultato della stratificazione delle nostre esperienze.
Altri aspetti notevoli riguardano, ad esempio, la tendenza dello spettatore a compiere continuamente delle anticipazioni sulle azioni dell’attore, prevedendone in maniera incarnata e muscolare gli obiettivi. Queste anticipazioni creano uno scarto esperienziale tra spettatore e attore, in cui quest’ultimo può creare quei meccanismi di anticipazione e sorpresa che la psicofisiologia descrive come la base fisiologica del piacere e che, per certi versi, mostrano come il piacere dello spettatore teatrale sia molto simile a quello legato alla fruizione musicale.
Nella tua ricerca definisci l’esperienza dello spettatore teatrale come unica rispetto a tutte le altre della nostra vita quotidiana. Cosa la rende tale?
Le particolarità sono numerose. Tra i fenomeni che hanno destato maggiormente il mio interesse vi è quello della cosiddetta “co-costituzione” dello spazio. Questa nozione, presa in prestito dalla fenomenologia husserliana ma utilizzata oggi anche da alcuni neuroscienziati, descrive come la nostra percezione del mondo circostante dipenda anche dalle tecniche fisiche che gli altri esseri umani utilizzano per interagire con noi e con il mondo stesso. Ciò significa che, se nel momento in cui interagiamo con altri individui questi utilizzano delle tecniche fisiche non usuali – ciò che succede con gli attori o i danzatori, ad esempio –, non solo viene modificata la nostra percezione dell’altro, ma cambia anche la percezione del mondo stesso che in quel momento stiamo co-costituendo con l’altro. In questo modo possiamo capire perché durante le nostre esperienze spettatoriali le coordinate fisiche o temporali si “accordino” su parametri differenti, rendendo la nostra esperienza qualcosa di unico, differente non solo dalle nostre esperienze quotidiane, ma anche delle altre esperienze spettatoriali, come quelle relative al cinema o alla televisione.