Primo weekend 2024 con Teatro delle Ariette, Carlo Infante, Arteinscacco, Marta Cuscunà e Simone Pacini. Si prosegue fino al 19 settembre
Vercelli è una piccola città piemontese di ascendenze celtiche, ricca di vestigia medioevali. Capitale europea del riso sulla via Francigena, equidistante da Torino e Milano, è sede arcivescovile intrisa di simboli cristiani, ma una sinagoga e un cimitero ebraico ne attestano una rilevante presenza israelita. Frequentata da papi e imperatori, contesa da guelfi e ghibellini, nel 1307 vi morì arso vivo l’eretico fra Dolcino, citato da Dante nella “Divina Commedia” e da Umberto Eco nel “Nome della rosa”. E la domenica, a chiudere la messa festiva nella centralissima chiesa del SS. Salvatore, è la canzone di un anarchico ispirata ai vangeli apocrifi, “Ave Maria” di Fabrizio De André.
Vercelli annovera antichi palazzi e torri, conventi e abbazie, architetture militari e chiese affrescate: la più celebre è San Cristoforo, con i dipinti di Gaudenzio Ferrari. Caffè, pasticcerie e trattorie si irradiano attorno a piazza Cavour, salotto buono dove ogni sabato mattina si radunano i contadini della campagna limitrofa a vendere i loro prodotti. E a Cavour è dedicato anche il canale da cui si dirama la rete irrigua che rende possibile la risicoltura, immortalata dal celebre film “Riso amaro” (1949) di Giuseppe De Santis.
E’ la campagna, raggiungibile attraverso strade polverose e dissestate, che inaugura #Ogniluogoèunteatro, festival giunto alla quarta edizione diretto e organizzato da Anna Russo (Teatro di Dioniso) con l’aiuto di Annalisa Canetto e Livio Ghisio (Arteinscacco) e di Roberta Bosetti e Renato Cuocolo (Cuocolo/Bosetti).
Debutto venerdì 6 settembre a Farm1861, antico cascinale ristrutturato risalente al Seicento. Questo spazio polifunzionale, che una volta ospitava le mondine, è ora teatro di iniziative e progetti ecosostenibili, di relazioni culturali e creative. Qui conosciamo Max Bottino, eccentrico artista visuale autore di “post_me:_” (Gallo Edizioni). Un libro; una “guida al disordine”; un percorso schizofrenico che incrocia luoghi e identità, oggetti e visioni, persone e sentimenti, attraverso parole, disegni, foto, immagini rielaborate con l’aiuto dell’intelligenza artificiale. Percorsi poliedrici, che sono uno scacco alla ragione e alla logica. Eresie, bizzarrie. L’impossibilità di distinguere il reale e il chimerico, e l’ambizione di attingere l’anima magmatica e sfuggente di una città liquida.
A Farm1861 saliamo le scale sotto i portici, davanti alla vecchia stalla. Raggiungiamo il fienile. Sotto una tettoia a spioventi, incontriamo Teatro delle Ariette. Siamo una quarantina di spettatori, disposti a U davanti a una rudimentale mensa imbandita. Vassoi con fiordilatte, erbette, pomodori con salsa al pesto. Taglieri di salami e formaggi. Fondine con hummus. Vino rosso e acqua. Stefano Pasquini stende l’impasto da cui ricaverà deliziose e profumate tigelle. Paola Berselli, seduta a una scrivania, scorre le pagine di un diario. Narra un’estate, quella del 2019, quando Matera fu capitale europea della cultura. A #Ogniluogoèunteatro lo spettacolo “Trent’anni di grano. Autobiografia di un campo” è l’omaggio della capitale del riso a Matera capitale del pane. È soprattutto il tributo di due attori-contadini alla campagna. La scena è un tappeto di chicchi di grano. Paola e Stefano (lei lo chiama affettuosamente Pasqui) rievocano la magnifica estate di cinque anni fa. Nel 2019 erano giusto trent’anni da quando questa coppia – sulla scena e nella vita – aveva preso possesso del podere delle Ariette, tra Bologna e Modena. I diari di Paola – con gli intermezzi di Stefano che continua a impastare, ritagliare e cuocere – sono un resoconto di fatiche rurali e teatrali. C’è l’amore per la scena, per la terra, per gli animali da cortile. C’è, prima di tutto, l’amore di coppia consolidato negli anni: un’alchimia di anime, intelligenze, corpi, occhi che a quasi mezzo secolo dal primo incontro brillano più di prima. Una catasta di sentimenti. C’è la bellezza di un’Emilia ordinata e selvaggia. C’è il ricordo delle spiagge di Romagna, e lo stupore di una ragazza che non aveva mai visto il mare. C’è il viaggio verso Sud di cinque anni fa, il cielo blu di Matera “che solo un pittore può dipingere, e un poeta raccontare”. C’è il rito del grano, e la panificazione come danza ed eucaristia. C’è la sacralità di una simbologia epifanica, mentre gli anni avanzano per un uomo e una donna, con la fatica e la gioia di continuare a fare l’amore. La liturgia del teatro esplora memorie e sogni, nostalgie e progetti. Esorcizza la malinconia attraverso un simposio di cibi e cuori. Dirada le nubi di un futuro debilitato. Il cerimoniale del vino e del pane avvia il tempo di una pace immortale.
Sabato 7 settembre è invece il tempo dello spirito nomade. Carlo Infante, creatore di Urban Experience, interroga il territorio. Crea le condizioni per incontrare il genius loci di Vercelli. Il suo “Walkabout” è un’occasione per scoprire l’anima sotterranea della città. È una catabasi che si ricollega ai viaggi di Enea e Dante. Armati di cuffie, esploriamo un’area alternativa agli itinerari turistici. Calpestiamo sampietrini, ripidi scalini di ospedali e chiese in disuso. Ricalchiamo gli itinerari occulti dell’acqua. Vagabondiamo attorno a un canovaccio e a una guida sui generis ma coltissima: poca drammaturgia, appena qualche traccia audio. Quel po’ d’improvvisazione rende più genuino il contatto con la città pulsante. Ritroviamo Vercelli anche tra le piume e gli escrementi dei piccioni, tra le ragnatele alle grate per raccogliere le acque piovane, lambendo un ex mattatoio, entrando in una profumeria, assaporando da un venditore ambulante in piazza Cavour i cristalli di un pecorino stagionato con la sua tirosina, aminoacido dopaminico che avvia il benessere della psiche e del corpo. Gli attraversamenti di Infante hanno un valore aggiunto: la modalità “situazionista” e conviviale; si valgono di approcci molteplici; sconfinano nei territori della spiritualità, della filosofia e della letteratura, fino all’antropologia e all’arte. C’è poi l’interazione con il pubblico, che Infante interpella continuamente, arricchendo l’esperienza di ulteriori sfumature culturali. Trasformandola in una drammaturgia collettiva. Lo spettatore si inabissa nel sottosuolo delle proprie memorie.
Da Sant’Andrea, abbazia simbolo di Vercelli, tra i maggiori esempi architettura gotico-romanica in Italia, raggiungiamo l’atrio dell’Associazione d’Irrigazione Ovest Sesia. È qui che avviene la prima tappa del “Progetto Pellegrino”, intitolata “Mutamenti irreversibili”, a cura di Teatro di Dioniso e Arteinscacco. La drammaturgia di Livio Ghisio si vale del contributo musicale subliminale del cantautore e polistrumentista Roberto Amadè. Al centro ancora la città, la sua storia millenaria, le sue professioni ataviche: l’acquaiolo, la mondariso, l’operaio tessile, l’industria ormai in disarmo, la delocalizzazione e la disoccupazione, la flessione demografica. Un testo poetico emozionante. Una musica ambient che come pioggia sottile penetra nelle ossa. Il reading è un monologo a due voci tra Annalisa Canetto e Irene Ivaldi. Vita e morte s’inseguono costantemente. Il passato ritorna con la sua zavorra di rievocazioni e tramonti. Un teatro. Un bar. Un cimitero. Il buio. Lo smarrimento. Il mistero. Un’elegia sepolcrale. “Mutamenti irreversibili” è il giuramento di fedeltà a una terra luminosa e amara. È, soprattutto una promessa d’amore al teatro che tutto elabora, sfuma, sublima. È un’esperienza estetica che parla alla memoria di una comunità. E svela, poco a poco, l’anima di Vercelli anche a chi la visita per la prima volta.
Il Piemonte è terra partigiana. A Teatro di Posa Adverteaser, spazio della periferia industriale, Marta Cuscunà mette in scena “The beat of freedom”, reading tratto dal libro “Io sono l’ultimo. Lettere di partigiani italiani” (Einaudi 2012). Artigianalità senza velleità, che ha il merito di celebrare una pagina di un passato mai morto all’epoca dei neofascismi imperanti. Un atto di ribellione puro ed essenziale, che esalta il ruolo delle donne resistenti, capaci di una doppia disobbedienza: al fascismo che ne faceva delle suddite; al patriarcato che le relegava al ruolo di focolari domestici. La lettura scenica interseca storie di patrioti e musiche americane, Lou Reed, Patti Smith, Alanis Morrisette. Nulla di invasivo: il dialogo è piuttosto con le immagini, le illustrazioni live di Fabio Babich, che con varie tecniche e strumenti crea un contrappunto mai didascalico o banale alla narrazione, ribaltando continuamente le prospettive.
Chiudiamo il weekend vercellese domenica 8 settembre con la presentazione del libro “Il teatro sulla via Francigena” (Silvana Editoriale 2018) di Simone Pacini. Siamo nel cortile Juvarra del Seminario Arcivescovile. Il dialogo dell’autore con l’editor Lara Giorcelli svela i retroscena di una mirabolante avventura risalente al 2013: trenta giovani attori di due compagnie (il Teatro Metastasio di Prato e Théâtre École d’Aquitaine) impegnati in un laboratorio itinerante di un mese tra Toscana e Lot-et-Garonne, in Francia. Trecento chilometri fra itinerari del sacro e arte di strada, ostelli, abbazie e imprecazioni. L’allestimento in piazze e teatri di uno spettacolo bilingue tratto da Boccaccio, Goldoni e Fo. I luoghi da esplorare. I problemi da risolvere. Le discussioni, i litigi, gli innamoramenti. Le valigie in mano e le borse sotto gli occhi. Le vesciche ai piedi. Il caldo e la polvere. Il senso di un’arte che è essa stessa, sempre, fatica, cammino, pellegrinaggio, ricerca, spaesamento. Il libro di Pacini è un giornale di bordo, ma anche una guida turistica ottimamente scritta. È il senso di un’esperienza che ricollega al Medioevo. E torniamo al punto di partenza.
Il festival #Ogniluogoèunteatro prosegue fino al 19 settembre con Rita Frongia, Luca Stetur, Teatrino Giullare, Cuocolo/Bosetti e Rubidori Manshaft, Angsa Novara e Vercelli Onlus, I Sacchi di Sabbia, Kronoteatro/Maniaci d’Amore, Officine Papage e KioShinDo. Tornarci può essere l’occasione per fare un bagno nella cultura e nell’arte. Gustando anche le pietanze locali, come la panissa e i bicciolani. E inebriandosi sulla falsariga dell’eccellenza locale, il riso. Che, come si dice da queste parti, “nasce nell’acqua e muore nel vino”.