Il nostro focus sulle giovani compagnie continua, oggi, osservando da vicino la compagnia lombarda Oyes, di cui abbiamo visto a Milano, al Teatro Menotti, “Vania”, il suo lavoro più celebrato, vincitore di diversi premi, spettacolo ospite all’ultima edizione di Primavera dei Teatri.
La compagnia nasce dall’incontro di nove ex-allievi dell’Accademia dei Filodrammatici di Milano, debuttando alla grande con lo spettacolo “Effetto Lucifero”, che vince il premio Giovani Realtà del Teatro 2010 e il cui testo è finalista al Premio Riccione-Tondelli nell’edizione 2011.
Giungono poi “Assenti per sempre” del 2009, “Luminescienz-la setta” del 2012 e “Anton-scherzo in un atto” del 2013, infine “Va tutto bene”, che debutta in anteprima nazionale nel giugno 2014 chiudendo la collaborazione triennale con il Teatro Filodrammatici di Milano, uno spettacolo che vede per la prima volta alla regia Stefano Cordella e a cui potremo assistere in giugno, sempre a Milano, all’Elfo.
L’ultima creazione di Oyes parte, come si evince dal titolo, dal capolavoro cechoviano “Zio Vanja”, trasportato ai giorni nostri e ambientato in un paesino di provincia, dove sul letto di una camera giace il Professore, il capofamiglia, tenuto in vita da un respiratore artificiale.
Intorno a lui la giovane moglie Elena, il fratello Ivan, la figlia di primo letto, Sonia e il dottore. Come in “Zio Vanja” tutti questi personaggi sono fortemente insoddisfatti, sentono di non vivere appieno la vita che vorrebbero, incominciando dalla giovanissima Sonia che, disoccupata e innamorata senza speranza del dottore, sceglie di partire per cercare un lavoro sicuro in Inghilterra, come accade a molti ragazzi di oggi.
Stessa disillusione entra nelle viscere di Elena che, rimasta sola per la malattia del marito, vorrebbe anch’essa avere una relazione con il dottore, il quale vive pure lui scontento di una situazione di cui non vede sbocchi. Solo Vanja, in qualche modo, col suo essere sempre sopra le righe, prendendo spesso in giro se stesso e la vita, cerca di reagire alla situazione stagnante che lo circonda, arrivando perfino a tentare di uccidere il padre.
Ed è appunto il respiro affannoso del pater familias (Cechov?), da cui in qualche modo tutti dipendono, che aleggia in ogni momento dello spettacolo.
Elena, Vanja, Sonia e il dottore appaiono nella bella scena minimalista di Stefania Coretti e Maria Barbara De Marco, collegati ad una luce che rimanda in modo esplicito ad una bombola di ossigeno che li tiene in vita, mentre una porta in fondo parrebbe essere, inutilmente, l’unica via di scampo alla situazione.
Lo spettacolo, muovendosi in parallelo con la vicenda cechoviana, ci offre uno spaccato nel complesso condivisibile dell’ansia che imbeve il nostro sentire contemporaneo, corroso da una crisi non solo economica, ma anche di valori e di possibili ambizioni.
Fabio Zulli (Vania), Francesca Gemma (Sonia), Alessandra Mattei, che sostituisce Vanessa Korn (Elena) e Umberto Terruso (il dottore), che hanno partecipato attivamente alla drammaturgia, si misurano in modo convincente con i rispettivi personaggi, riconsegnandoci in modo denso di nuovi significati e suggestioni un capolavoro senza tempo, che ancora oggi è capace di gettare semi importanti per indagare in profondità le varie sfaccettature dell’essere umano.
Per fare un’analisi più completa dello spettacolo e dell’iter artistico della compagnia, abbiamo posto alcune domande al regista Stefano Cordella.
Perché proprio “Zio Vanja”?
E’ da un po’ di anni che studio Cechov. Oltre ai testi teatrali ho letto i racconti e tutto il suo epistolario. Ogni volta che rileggevo “Zio Vanja” rimanevo colpito dalla risonanza che aveva su di me la scena tra Astrov e Vanja, dopo che Vanja prova a sparare al professore e poi ruba la morfina al dottore: “Ho 35 anni, metti che arrivo fino a 70, me ne restano ancora il doppio. Troppi. Cosa faccio tutto questo tempo? Se si potesse trascorrere quel che resta della vita in qualche modo, un modo nuovo…”. Astrov nega all’amico la possibilità di una vita felice, dice che per loro ormai è finita. “Quelli che verranno dopo, forse, potranno essere felici. Ma noi…”.
E’ incredibile come questa scena rispecchi la situazione attuale di molte persone tra i 30 e 40 anni (e non solo), persone che si sono costruite un castello di sogni durante l’adolescenza, pensavano di spaccare il mondo e poi si sono ritrovati con niente in mano. E invece di provare a ripartire si accontentano, tirano avanti “a campare”, sopravvivono nonostante ci sia tutto il tempo per raddrizzare la propria vita e darsi un senso.
Nello spettacolo cos’è rimasto di Cechov e cosa vi avete immesso di vostro? E in che modo gli attori hanno partecipato alla stesura del testo?
Questa scena è praticamente l’unica che è rimasta uguale al testo di Cechov (adattata solo nel linguaggio). Per il resto, a parte qualche scambio di battute, la drammaturgia è originale.
Ci sono alcune scene che conservano la stessa dinamica del testo di partenza e altre che invece la “tradiscono” in modo più netto (il professore è malato ma non è in coma, Sonia non va da nessuna parte, ed è Vanja a prendere la morfina e non Elena ecc.).
Solitamente noi lavoriamo così: io sviluppo un’idea e la sottopongo agli attori. Ci concediamo un paio di giorni in montagna per chiacchierare attorno al tema e lasciare andare i pensieri a ruota libera.
Poi io mi prendo il tempo per comporre una struttura di scene che esploro insieme agli attori in improvvisazione. Questa fase permette agli attori di scoprire come parla il proprio personaggio, come si muove e come può agire all’interno della struttura drammaturgica. Vagliamo diverse ipotesi e raccogliamo tanto materiale (appunti e video). A partire da questo materiale grezzo butto giù una prima bozza del testo, che poi ogni attore adatterà al linguaggio del proprio personaggio.
L’ultima fase è il montaggio vero e proprio dello spettacolo, anche se in un lavoro come questo la regia è molto legata alla drammaturgia.
In che senso avete voluto raccontare “le paure, il senso di vuoto, la difficoltà di sognare dei nostri tempi”?
Nel testo ci sono tre generazioni al confronto: la nostra (Ivan, il dottore ed Elena hanno tra i 30 e i 40), quella dei padri (il professore in coma) e quella dei ventenni (Sonia).
Tutti a loro modo stanno fermi: c’è chi ha paura a lasciarsi andare emotivamente, chi non trova più stimoli, chi ha mollato e tira a campare. L’unica che prova a fare concretamente qualcosa è Sonia, ma non ha i mezzi, e le possibilità per i giovani sembrano sempre meno. Sonia dice: “Ho letto da qualche parte che a quelli come noi, a quelli giovani, ci chiamano i Né- Né, perché non studiamo né lavoriamo, né stiamo né andiamo, né siamo grandi né siamo piccoli, né carne né pesce, un po’ come te, che non sei né vivo né morto. Ma adesso io divento qualcosa. Divento felice. Come lo sei stato tu”. Raramente c’è spinta vitale (un’apatia dovuta alla paura di mettersi in gioco su più livelli), e quando c’è deve fare i conti con il senso di vuoto.
Quali sono le problematiche più urgenti che ha una compagnia come la vostra, oggi, nel teatro italiano?
Senza troppi giri di parole: i soldi. Non bastano più i piccoli premi che ogni tanto fortunatamente siamo riusciti a vincere. Abbiamo bisogno di un sostegno produttivo concreto, che ci permetta di lavorare in condizioni dignitose. Potersi concentrare sul processo artistico e creativo senza dover risolvere altre mille questioni. Vogliamo essere liberi di sviluppare un nostro percorso senza doverci piegare ad assurde logiche di mercato.
Da dove viene il vostro nome Oyes?
In spagnolo significa “ascolti” e in americano è un’espressione di positività. Quando l’abbiamo scelto eravamo molto giovani e avevamo bisogno di un nome che ci caricasse! E poi ci piaceva il suono.
Programmi futuri?
Ancora una riscrittura a partire da Cechov. Questa volta “Il Gabbiano”. Il fuoco sarà la necessità di Kostja di trovare “forme nuove” e quanto questa ossessione possa inquinare i rapporti personali. Molto probabilmente si intitolerà “Io non sono un gabbiano”. Debutteremo a giugno a a Castrovillari, un ritorno a Primavera dei Teatri.