Flavia Mastrella, artista multidisciplinare e mente impermeabile all’ovvietà, non va in scena, ma è da sempre parte fondamentale e inscindibile del lavoro portato sul palco da Antonio Rezza (la cui intervista abbiamo pubblicato ieri), con la creazione degli habitat all’interno dei quali poi il performer, da solo o in compagnia, si muove e agisce.
L’abbiamo raggiunta per telefono e abbiamo incontrato una persona per la quale l’aggettivo unica, per una volta, non suonerà iperbolico e nemmeno retorico.
Come hai vissuto questo periodo?
Malissimo, l’ho vissuto come una violenza. Avendo una coscienza politica non mi piace come è stata gestita. Questa dittatura del caos è riuscita a confondere le idee già confuse della gente, in alcuni momenti pareva nessuno ci capisse nulla di questo virus.
L’Italia non si è rivelata pronta, a questa emergenza.
O aveva l’interesse a non essere pronta, questo ancora non si è ancora capito. Ad ogni modo ci ha risolto parecchi problemi, altrimenti andavamo in default come la Grecia.
Quindi tu dici che invece che crearne, di problemi, ne ha risolti?
Secondo me sì, ci ha permesso di salvare la faccia, ma mi rendo conto che si tratta di un’ipotesi molto cattiva.
Nell’Autoritratto che avete girato di recente per il Salone del Libro tu, ad un certo punto, dici che la tua più grande paura è la vita. Ti ricordi quando su Cuore, anni fa, uscivano le perifrasi (credo fossero di Paterlini) dove i pistolotti dei politici venivano tradotti in poche semplici parole? Prova a fare l’operazione contraria: traducimelo in prosa.
E’ abbastanza difficile: la vita è comunque un’incognita. Noi lavoriamo molto con l’improvvisazione. La vita è imprevedibile, non si sa mai dove va a parare. Tu puoi avere una tua volontà, una tua direzione, ma basta un inconveniente perché tutto si trasformi. Per questo la temo un po’, la vita.
E allora più ansia che stupore, rispetto a quello che può succedere?
No, a tratti sei stupito di una cosa bellissima, in altri momenti magari non è così. Il confine tra bello e brutto è estremamente labile, l’uomo vive una condizione illusoria. Anche questo slogan, “Andrà tutto bene”: ma che ne sai?
Ha attecchito molto, credo, perché è assolutamente comune e diffusa la paura profonda di confrontarsi con l’ineluttabile, con la paura della morte.
Esatto, anche questo rivela la paura inconscia della vita che abbiamo tutti. Nel nostro sistema capitalistico la vita, secondo i canoni artificiali, non è più imprevedibile.
Altrimenti il rischio è di non essere più un bravo consumatore.
Certo.
Sempre nell’Autoritratto, dici che temi di perdere la fantasia. Tu come fai a tenere l’interruttore sempre acceso?
Non c’è un metodo generico. Io vivo un po’ alla giornata, non faccio programmi, vivo come viene. Questo vivere spontaneamente il momento ti porta a vivere come se fosse sempre la prima volta. Sono molto distratta, quindi dimentico tante cose, soprattutto la difficoltà, la fatica per arrivare ad una idea, e tutte le volte mi butto incosciente, faccio un po’ tabula rasa, come Kandinskij: attraverso la cancellazione, non dei sentimenti, ma dell’esperienza creativa, si raggiungono nuove frontiere.
Non conservi memoria di quello da cui sei già passata?
Conservo la memoria del corpo, del fare, quella tecnica, mentre la parte organizzativo-fantastica vaga sempre, in una sorta di nuvola, di vuoto, dove nulla attecchisce, perché altrimenti si trasforma in manierismo.
Che, secondo te, è una cosa da rifuggire, perché poi diventa professionismo.
Inteso come è adesso, monotematico: quando si fanno le cose, tutti arrivano solo con un pezzo, nessuno ha padronanza totale di quello che si fa, ed invece questa è fondamentale, per dare un risultato. Il professionismo però certe volte si avvale di figure e metodi tecnici che vanno a sopperire magari proprio alla mancanza di fantasia del momento.
Sostieni che è fondamentale mescolare le discipline. Come il tuo percorso…
Vengo da varie esperienze, ho iniziato come pittore, poi sono passata alla fotografia, al fotogramma, da lì alla performance in galleria, poi ai centri sociali ed ai teatri. Finché ce n’è stata possibilità, abbiamo fatto cose nei musei e nelle gallerie, fino al 2008. Anche il cinema (dal 1990 al 1998) e le interviste che abbiamo fatto (I Troppolitani, iniziate nel 1999) sono tutte esperienze che arricchiscono il patrimonio comunicativo. I Troppolitani ci hanno insegnato un altro metodo di creazione, che abbiamo poi trasposto ad esempio in “Fotofinish”, uno spettacolo molto corale dove Antonio prende la gente dal pubblico, la porta sul palco, la tocca. Questo non sarebbe successo senza questa deriva dentro Roma, alla ricerca di problematiche: siamo stati al cimitero del Verano, abbiamo parlato del culto della morte e di molte altre cose, nella città, parlando con le persone e prendendole come venivano, e spostandoci a piedi: questo ci ha insegnato un’altra disinvoltura, e da allora in poi abbiamo proprio cambiato dinamica anche nel teatro.
Nella creazione dello spettacolo, tu in particolare ti occupi della creazione degli ambienti; ma la dinamica dell’invenzione qual è? Tu proponi un ambiente ad Antonio, esiste una dinamica regolare?
La dinamica creativa alla base è la stessa, anche se ogni volta cambia. Io creo l’habitat e Antonio ci vive dentro. Mentre io lavoro, lui pensa a togliersi la poetica del lavoro precedente, fa prove, scarica tutte le prime idee, poi gli consegno le cose e lui lavora negli oggetti o nell’habitat che gli ho consegnato, dipende da come è andata la mia parte creativa. Poi c’è una fase insieme: a cinque-sei mesi dal debutto entro io come occhio esterno alle prove e lavoriamo sui ritmi, sulla rotondità delle parole e sul movimento.
Nella creazione dell’habitat da cosa prendi spunto? Sempre nell’Autoritratto, quando parlate di ispirazione, Rezza racconta di prescindere da questa, mentre tu dici di nutrirtene e fai esempi di quotidianità assolutamente bassa, come i film americani brutti.
Certo, è lì che c’è il futuro. Sono piccole dichiarazioni d’intento. Hai mai visto “Wolverine”, gli “X Men”? Ti perdi qualcosa. L’ultimo è un capolavoro di assurdità. Avevo trascurato però l’eco thriller, questo mi ha amareggiato. Questi film catastrofisti raccontano scenari che poi si avverano, così la gente sa già come comportarsi.
Per me è uno studio necessario sulla forma di comunicazione molto subdola che mettono in atto; mi servono per smontare meccanismi impliciti, lo stesso accade con la pubblicità, che sia come mezzi tecnici che come capacità di influenzamento è una disciplina con contenuti tecnici altissimi. Mettono in gioco piccole differenze che ci fanno intravedere il futuro; sono preparazioni al futuro che ci permettono di abituarci al trauma in arrivo, servono per farci assaggiare il futuro senza spaventarci. Anche per farci confondere su quale sia il confine tra film e realtà. Il senso della realtà oramai è abbastanza nebuloso. Qual è la realtà? A parte il fatto che non è mai esistita.
Come si sfugge allora da questa retorica?
Immettere nel processo creativo un occhio alla realtà, ma non come hanno fatto ad esempio con le Torri Gemelle, che per dieci anni sono state esposte nelle gallerie d’arte e nei musei con foto, filmati, videoinstallazioni eccetera. Bisogna invece prendere il meccanismo comunicativo di questi eventi gravi e trasformarlo in una cosa meravigliosa: così riesci a parlare direttamente con lo spettatore col suo linguaggio, però gli dici altre cose.
Questo tuo riferimento alle Torri Gemelle mi fa venire in mente una dichiarazione che aveva fatto il grande compositore Karl Heinz Stockhausen, scatenando polemiche: secondo lui l’attentato dell’11/9/2001 andava visto come una delle più grandi opere d’arte mai realizzate dall’uomo. Faccio questo riferimento musicale anche perché in ciò che fate il ritmo è fondamentale.
Sì, perché il ritmo consente al messaggio di passare velocemente. E’ importante. Il messaggio deve passare velocemente, altrimenti non riesce a farlo. La percezione della gente è calata molto in questi anni, lo abbiamo visto. All’inizio anche il ritmo di Antonio era più lento, il pubblico riusciva a reggere uno spettacolo di un’ora e mezza o due ore, ora no. Il ritmo del 1990 non è quello del 2020.
Il ritmo deve essere veloce per impedire che qualcuno si sforzi di capire? La velocità è necessaria per far arrivare il lampo in quanto tale, ad un livello pre alfabetico, diciamo?
Sì.
Che idee hai a proposito della riapertura dei teatri col social distancing?
Credo sia ridicolo, non sarebbe teatro. Bisogna stare molto attenti, perché se le persone cedono a queste leggi poi sarà sempre peggio. Ci sono cose in cui uno deve mantenere il punto: il teatro deve essere così com’è, con la possibilità di toccare la gente. Questo con la mascherina è tutto un altro discorso, un’altra cosa.
Prima di poter tornare a teatro come prima potrebbe però passare molto tempo…
Certo, intanto poi ci abituano al distanziamento. Non dobbiamo accettarlo e non ci dobbiamo abituare, perché potrebbe diventare una norma di vita. Se la questione è eccezionale, troviamo una soluzione, noi non facciamo teatro, facciamo improvvisazione, performance, altre cose. Il teatro significa gente ed energia che passa. Se noi cediamo, e sicuramente lo faremo, per problemi di natura economica, è un processo pericoloso, perché non sappiamo fino a che punto ci venga detta la verità: sono state dimostrate impreparazione e confusione nel gestire le cose. Tra l’altro faccio notare che, in accordo con il G20, nel 2021 noi dovevamo essere tutti computerizzati e lavorare online.
Quindi l’epidemia è arrivata a fagiolo?
Per molti motivi: il default, i computer. Non so se hai notato che stanno rifacendo in giro le strade, mettono i lampioni, non hanno una lira, non danno i soldi ai cassintegrati, è un po’ strano, no? Così come trovo peculiare, quantomeno, che le prime cose ad essere distrutte siano state la scuola e l’arte. Poi ha chiuso tutto il resto, piano piano. Staremo a vedere, chissà che filmetti fanno gli americani. Sono curiosissima!
Se la realtà è la fantasia +1, sarà difficile andare oltre, ora. O no?
Beh, ci sono dei film che parlano di una realtà virtuale che diventa l’unica, dove gli uomini stanno in una stanza e immaginano tutto.
Questo mi fa venire in mente il cinema giapponese. Non lo segui?
No, no, lo seguo e mi piace tanto, ma il problema è che non è brutto come quello americano. Lo frequento tanto, ho fatto una cura di cinema giapponese mentre lavoravo a “7 14 21 28”, che è un ideogramma in scena ispirato sia alla cultura giapponese che a quella cinese. In “Fratto X” ad esempio c’è la copia del trono di guerra che c’è ne “I sette samurai” di Kurosawa.
Sono molto affezionata alla cultura giapponese, volevo andarci quest’anno. Peccato. Anche l’arte giapponese, la danza butoh, ci sono cose splendide.
Cosa ci aspetta dietro l’angolo?
Non so dirti, ho una certa ansia, non lo so o non lo voglio capire, spero che non ci educhino all’isolamento perenne, sarebbe una rottura di scatole incredibile. Io vivo in funzione della gente. Certe volte vado a Roma, salgo sulla metro solo per osservare le persone, sentire i suoni: poi traduco tutto questo nel mio lavoro. A volte verso Rebibbia, altre verso piazza del Popolo. Se ho voglia di schiettezza popolare Rebibbia, se invece voglio vedere il target turista, cambio: pure i turisti sono strani, eh. Adesso da un po’ le stazioni Repubblica e Spagna sono chiuse. La realtà esplorativa di chi ama andare in giro è più ristretta. Non prendo appunti perché mi farei influenzare. Prendo questi incontri come prendi il sole, li incamero, poi torno a casa e in qualche modo e forma escono nel mio lavoro.