La ricerca inestinguibile di Roberta Nicolai. Riflessioni sul teatro

Daria Greco a TdV 16
Daria Greco a TdV 16

Nicolai è regista, didatta, curatrice e direttrice artistica di Triangolo Scaleno Teatro e del festival romano Teatri di Vetro, che Klp segue da anni

Quasi un mese fa si chiudeva la sedicesima edizione di Teatri di Vetro. Abbiamo provato a guardare gli spettacoli di un buon numero di partecipanti al festival, a studiarne i contatti, le conflagrazioni.
Nelle platee spesso sedevano gli artisti delle altre serate: nessuna chiusura alle poetiche altrui, anche nel caso di posizioni agli antipodi per forma ed esigenze espressive. Questa è una caratteristica di TdV, quella di creare una comunità d’ascolto interna, che dialoga attraverso l’esposizione della propria ricerca, in qualunque stadio si trovi.

In quale misura hai percepito, o magari progettato, dalla tua posizione di curatrice, questo ambiente dialogico, orizzontale, di messa in comune non solo di esperienze compiute ma anche di momenti di studio, di materiali grezzi?
L’impianto progettuale di “Oscillazioni” affronta la necessità di riformulare, oltre che gli oggetti, le modalità con cui questi oggetti atterrano sulla scena. Tra queste modalità c’è anche quella dello sguardo e della sua circolarità. Gli artisti con cui collaboro sanno che nel campo da gioco la proprietà relazionale non è una proprietà che si aggiunge, che l’interrelazione tra i singoli pezzi è una mappa immaginata che ha solo quei tempi per essere esperita e solo quella frequenza per rilasciare sul piano del reale i suoi segni. Perdere l’unicità degli istanti, nella sequenza diacronica di ciò che accade, dell’oggetto che si manifesta, significa collezionare dei non esserci, rimanere con dei vuoti. Come leggere un libro a pezzi.
“Oscillazioni” non è un’istantanea, non è una fotografia della scena contemporanea o dei linguaggi emergenti. “Oscillazioni” è un’indagine in forma di teatro. In quanto tale va “letta” dall’inizio alla fine. Ci potranno essere passaggi ostici, parti irrisolte e oscure, parti non convincenti. Ma per esserci, devo entrare in quella frequenza, devo frequentare l’oggetto composto di oggetti. Soprattutto se sono un artista in programmazione, la visione del resto, gli altri oggetti e i tratti della cornice, può restituirmi dati in merito alla mia stessa ricerca.
Questo accade anche edizione dopo edizione. Atto dopo atto “Oscillazioni” rilascia questioni, una scia dietro di sé. (Ad esempio, l’eccedenza delle parti rispetto all’intero – eccedenza di sistema o performatività sistemica). In qualche modo l’ambiente dialogico di cui parli va oltre la singola edizione e ne fanno parte anche gli artisti del passato e del futuro. L’impianto tende – non dico che ci riesca – alla creazione di una zona autoriflessiva della creazione stessa. Siamo di fronte ad un intreccio strumentale.
Nella sua operatività “Oscillazioni” viene costruito in più di un anno di lavoro, che si compone di operatività differenziate e che, nell’atto di intervenire sui singoli progetti artistici – determinati in relazione al sistema di riferimento –, rimette continuamente mano al sistema stesso. Nessuno di noi è fuori. Siamo dentro al sistema che costruiamo. Sarebbe insensato poi non aderire a questa frequenza e frequentare lo spazio-tempo del suo manifestarsi. L’impianto tende – non dico che ci riesca – alla creazione di una zona autoriflessiva della creazione stessa. Siamo di fronte ad un intreccio strumentale. A diversi livelli gli artisti ne sono consapevoli.
In questa prospettiva le differenze poetiche, le distanze generazionali, così come la nozione di opera non sono più l’orizzonte primario. Semmai diventano materia di indagini specifiche, di scambi e di riflessioni, una serie di rivoli, di formati del discorso all’interno dello stesso volume. Una moltiplicazione di specchi come negli ambienti immaginifici del luna park.

In che forma il pubblico (parlo di un pubblico “fuori” ma già vicino al teatro di ricerca) entra nelle direttrici di costruzione del programma – anche se il termine, nel suo senso compilativo, è quanto mai impreciso per TdV? È un elemento, questo pubblico, di una qualche triangolazione nella tua fantasia progettuale?
Ho spesso detto che l’oscillazione chiesta agli artisti è rivolta anche agli spettatori, invitati a entrare nelle pratiche artistiche. Lo spettatore è il turista, come scrissi tempo fa prendendo a prestito “Inception” di Christopher Nolan come metafora, cioè colui che è estraneo all’operatività, è però dentro all’operazione – e infatti mette del denaro – (nel caso di TDV devo dire poco, ma tant’è).
Cosa chiede agli spettatori questo strano oggetto che è TDV e “Oscillazioni” in modo peculiare? Di salire sulla giostra. Se come spettatore vengo a vedere un singolo spettacolo purtroppo sono salito per un attimo sulla pedana e sono disceso prima che la giostra si mettesse in moto. Poi succede anche – quest’anno è successo – che una spettatrice sia salita per caso sulla giostra e che vi sia restata per tutta la sera e le sere successive. Succede e grande è la soddisfazione.
Ma il concetto di opera – che per dirla con le parole di Roberto Diodato è una sciocchezza dal momento che l’opera non si lascia afferrare da nessuna parte – è difficile da scardinare. Così sembra normale ancora oggi che scelgo il singolo spettacolo, metto questa piccola tacca che fa media Istat e penso di aver capito. Purtroppo, “Oscillazioni” così non si lascia afferrare. E soprattutto il vantaggio che, anche come semplice turista partecipe dell’operazione, avrei avuto nel sostare all’interno di una frequenza anomala – in cui ogni gesto artistico indipendentemente dalla sua prossimità o distanza siderale dal concetto di opera si presenta nella sua nudità e nella sua corporeità – avrebbe potuto evocare un me sconosciuto a me stesso e questo non è stato.
Quindi sì certo, la mia triangolazione prevede l’uscita da una zona di stasi ed equilibrio per gli artisti e di conseguenza l’esposizione di trame sottese attraverso le quali anche gli spettatori possano oscillare e perdere l’equilibrio delle loro certezze, uscendo da ciò che conforta e entrando nell’esperienza estetica. Purtroppo, la triangolazione può fallire.
Ci sono gli spettatori ideali. Sono gli studenti universitari, i giovani professionisti del settore e i giovani in genere – che per me sono un pensiero costante – , gli artisti, alcuni spettatori affezionati e irriducibili, gli osservatori per vocazione. Il loro sguardo e anche lo scambio con loro mi consente di testare il disegno attraverso la loro frequentazione costante, attraverso la loro permanenza sera dopo sera, di ricevere domande, di avere le loro risposte.
Ci sono poi due strade secondarie ma ugualmente possibili con cui penso che si possa attraversare “Oscillazioni”: seguire un’intera serata e oscillare di visione in visione; seguire tutti i lavori dello stesso artista e abitare l’interno del processo. Sono due traiettorie opposte ma ugualmente valide che possono determinare se non proprio una perdita di equilibrio almeno una domanda, da tenere al caldo e da riporre a se stessi, magari la prossima volta che si varca la soglia di un teatro. Sono le due direttrici che costruiscono l’ossatura del progetto: la frequenza della serata e quella della presenza dell’artista articolata nei diversi dispositivi scenici. Sono strutturali e quindi possibili sul piano della fruizione.

Biancofango a Tdv 16
Biancofango a Tdv 16

Sedici anni di lavoro sul progetto di TdV, radicato negli spazi romani (dal Palladium al Vascello, all’Angelo Mai agli attuali spazi del Teatro India), devono esser stati in grado di fornire a te e al tuo gruppo una mappa diacronica della scena contemporanea in questa città. E’ materiale per cui non basterebbe un libro, ma se dovessi scegliere le direttrici che più di altre ti è parso di cogliere, quali sarebbero?
Sì, non basterebbe un libro. In più sarebbe un libro con una necessaria impostazione storica. Quindi richiederebbe anni di lavoro e lettura dei documenti. Sarebbe interessante che qualcuno di competente, con un saldo corredo teorico, si mettesse all’opera.
Forse riusciremmo a comprendere se e quali tracce abbiamo lasciato sul terreno.
Per quanto mi riguarda, isolo una questione e forse la banalizzo.
Nel momento in cui TDV è nato, il 2007, il contesto della città di Roma registrava una pluralità di spazi, per lo più centri sociali occupati ma non solo, abitati da compagnie, gruppi, singoli artisti. In quegli spazi si produceva teatro, danza, musica.
All’epoca il triangolo era a Strike a Casalbertone. Io mi occupavo esclusivamente di regia e insegnavo recitazione. Nel 2003 avevamo fatto una rassegna ospitando anche compagnie da fuori Roma, per la rassegna avevamo avuto un contributo dall’E.T.I. e in me era nato spontaneamente l’interesse per l’osservazione del lavoro degli altri artisti. Si era aperta una finestra sul mondo.
Così nel 2006, in risposta ad un bando della Provincia di Roma, proponemmo un monitoraggio di quella che chiamavamo scena indipendente. Lo vincemmo e il risultato fu la scoperta di centinaia di nuclei artistici disseminati sul territorio cittadino. La prima edizione di TDV fu costruita attraverso un open call a cui arrivarono centinaia di video di spettacoli. Li vidi tutti e anno dopo anno ne vidi migliaia.

In cosa differiva quella scena, nella quale TDV muoveva i suoi primi passi, da quella di oggi?
Ripeto, prendo una sola linea. E non mi addentro né sul piano politico né su quello economico.
L’autonomia degli spazi si rifletteva nell’autonomia artistica. Non posso dire che non ci fossero estetiche di riferimento. C’erano ovviamente. E c’era anche un’ingenuità diffusa determinata dalla giovane età dei gruppi e degli artisti e da percorsi di autoformazione. Ma la vitalità di quello scenario, la sua totale polifonia linguistica e al tempo stesso la disponibilità a darsi supporto e sostegno reciproco era il sintomo di una buona salute sistemica, un’energia in ascesa. E non a caso quello è stato il contesto in cui sono nati molti degli artisti romani riconosciuti e attivi ancora oggi.
Una mappa di luoghi che esprimeva differenze, le affermava. Una sana anarchia creativa.
Questa polifonia si è via via assottigliata. Ma non a Roma, ovunque, e non solo in Italia.
Come se questi sedici anni avessero via via determinato la necessità di stringere la polifonia, scomposta e a volte dissonante, in un unico coro, confortante, organizzato e, a tratti, incredibilmente monotono.
TDV in questo senso continua ad alimentare la polifonia e a non confondere i concetti di scena emergente o contemporanea o come la si chiamerà domani, con le questioni estetiche e poetiche.

È in qualche modo legato alla qualità mutata di questo substrato cittadino lo sfrangiarsi del lavoro di Triangolo Scaleno in più progetti? Mi riferisco a VĪVĂ, il progetto di divulgazione scientifica, a Circ@, il progetto costruito sul confine tra danza, circo, musica e teatro, locato proprio in un tendone da circo, lo chapiteau nel quartiere di Casal Palocco? Cioè: si tratta di una necessità legata alle dinamiche produttive, magari locali, o si tratta di qualcosa di endogeno rispetto al tuo lavoro di ricerca?
Tutta questa operatività è sintomo della tensione di costruzione di una struttura, una tensione a quell’intero – irraggiungibile – che ci fa tenere insieme le cose e le nostre vite. L’operatività è apparentemente divisa in progetti autonomi e senz’altro legata ad elementi contingenti – quali la promulgazione di bandi con direttive specifiche e il fatto di averli vinti, cosa non irrilevante. Ma i progetti nascono sempre ed esclusivamente da necessità interne di ricerca. VĪVĂ nel triennio appena trascorso ha assorbito funzioni e direzioni in cui TDV non poteva affondare. Prima di tutto l’uscita dai campi disciplinari strettamente legati allo spettacolo dal vivo e i contenuti e le prospettive che antropologi, architetti, biologi, filosofi, maestri e maghi hanno apportato alle riflessioni e ad alcune questioni poste, allargando il prisma. Poi la possibilità di operare in zone periferiche a contatto con la popolazione più fragile – i laboratori sono stati tutti rivolti a bambini e ragazzi. Questo strano ibrido – coinvolgimento di teorici e applicabilità rivolta all’infanzia e all’adolescenza – hanno riverberato anno dopo anno e hanno delineato traiettorie ulteriori, nuovi temi di riflessioni e nuove modalità di relazione
CIRC@ era un progetto in attesa da tempo e contemporaneamente così recente che ci sto ancora ragionando, come tutto ciò che copre un arco temporale ampio, siderale. In un passato molto lontano, prima di dedicarmi totalmente al teatro di ricerca, sono stata un clown. Conservo ancora la mia narice (e una che mi ha dato la Fratellini). Il circo in generale e il clown in particolare sono elementi integrati nella scena di ricerca, sottesi a livello di immaginari evocati e a volte sul piano della struttura compositiva. C’è un’origine. In questo caso bifronte, biografica e storica.
Era viva la necessità di ricontattare quell’origine, di indagare le analogie tra clown come periferia della scena e la ricaduta del progetto nella periferia della città e di farlo partendo dalla posizione attuale, dal punto in cui mi trovo oggi, cioè dalla scena di ricerca. Ho come immaginato che le roulotte con cui il circo si sposta, si muovessero idealmente dal territorio del teatro verso il campo in cui montare lo chapiteau – in realtà lo chapiteau di via dei Pescatori era già montato. Una delocalizzazione, un viaggio, uno spostamento. Per indagare cosa? Lo spazio come sistema di forze. E come questo sistema di forze determina, modifica i segni e i significati.

È un tema che senti come centrale, quello dello spazio?
Lo spazio è uno dei nodi della ricerca e spesso i miei primi feedback agli artisti hanno riferimenti spaziali: dimensioni, piante, prossimità, da dove viene lo sguardo, qual è la sua prospettiva. O più banalmente qual è la posizione degli spettatori. È un’indagine portata avanti negli anni che non ha solo a che fare con il ribaltamento o dissolvimento delle convenzionalità della relazione scena/sala ma che a partire dallo spazio interroga gli elementi scenici e la loro composizione in relazione alle modalità di fruizione.
Ora, la scena, il teatro, è una scatola – nera per lo più, ma anche bianca o come la si vuole. Lo spazio è per lo più diviso tra scena e sala – anche se dentro TDV abbiamo sperimentato quasi tutte le possibilità alternative alla divisione convenzionale, tuttavia raramente le due zone si sono dissolte l’una nell’altra. Lo chapiteau è una macchina diversa. C’è un’unica architettura a contenere pista e gradinata, attrazioni e spettatori dentro un unico cono. Tutto è visibile – trapezi, cordami, teli, luci – e lo sguardo degli spettatori si orienta naturalmente verso l’alto o spazia nel cerchio della pista. Ne consegue tutt’altro comportamento, perché tutt’altra è la percezione e l’aspettativa. Se nello chapiteau realizzo uno spettacolo di circo non solo il pubblico ride, ma applaude interrompendo l’azione, rumoreggia, commenta, entra e esce se vuole, si alza in piedi. Si sente autorizzato a esserci con una leggerezza e una disponibilità che tracciano una traiettoria interiore del tutto opposta a quella del teatro. In teatro partecipare dell’oggetto equivale a scendere ognuno nel proprio profondo, una sorta di verticalità delle emozioni. In teatro cerco me stesso. Sono disposto ad attendere che il significato si depositi, che forze mi agiscano. Nel circo si vola fuori di sé e nel volo ognuno è con tutti gli altri.
Cosa succede se con le nostre roulotte arriviamo in un prato in periferia di una metropoli e montiamo (in modo figurato) il nostro chapiteau che ha appunto la specifica caratteristica di farsi spazio ibrido e di mescolare nello sguardo degli spettatori, le diverse discipline, i diversi mondi e relative traiettorie?
CIRC@ è stato realizzato a novembre 2022. La parte finale di TDV – “Composizioni” a Ostia e “Oscillazioni” a India – è iniziata il 5 dicembre con i laboratori e la residenza al Teatro del Lido. A quel punto ogni cosa era diventata iper-sottile nella mia percezione. Ogni passo, ogni gesto, ogni postura. Non avevo più uno sguardo ma un dispositivo di visione.

Tornando alla dimensione ‘tempo’, negli anni tu hai vestito in modo continuativo un duplice ruolo: questo di programmatrice e quello di curatrice dei processi creativi di singoli artisti o gruppi. Penso a Paola Bianchi, presente a Tdv 16 col dittico “Fabrica”, e ad Alessandra Cristiani, già avviata verso una nuova trilogia ispirata all’arte figurativa, ma la lista potrebbe continuare. Cosa significa questa posizione così vicina a un artista per chi sa di operare non “sciolta” ma anzi come tramite, come enzima e traduttrice multipla anche verso quel “fuori” di cui si parlava prima? Sei costretta a operare una qualche scissione?
Se considero la questione dal punto di vista del fenomeno, i due piani vivono nell’interrelazione, nel senso che non sono indipendenti l’uno dall’altro – come lo sarebbero i termini di una relazione – ma è l’interrelazione che li determina.
L’operatività nel tempo li distingue, crea una loro temporanea autonomia.
Quando lavoro sui processi – seguo le prove, visiono materiali video o parlo con l’artista – “Oscillazioni” e TDV, le strategie interne al sistema, così come temi emergenti, traiettorie e riverberi, assonanze e contrasti, sono l’orizzonte, lo sfondo. Come una bella vista. All’inizio gli scenari sono diversi con ogni artista a livello tangibile: siamo su una riva, in alto ad una vetta, è estate, fa freddo. Sto nel presente. So che la mia presenza ha già modificato l’oggetto che a sua volta è un sistema. Lì cerco la concentrazione per rispondere alla domanda – cosa sta cercando in questo pezzo? Tutto ciò che ne scaturisce non è determinato a-priori. Nasce dall’osservazione, dall’analisi e da una ricerca di verbalizzazione dell’analisi in punti, osservazioni, suggerimenti, immagini, fonti a volte che rinvio all’artista senza alcuna pretesa di trovare soluzioni o alternative, senza occuparmi del risultato. Una coabitazione dell’oggetto tra me e l’artista. Ci diamo tempo. L’artista riprocessa. Poi magari intervengo di nuovo. Il lavoro occupa mesi.
Ma “Oscillazioni” è un progetto fatto della stessa materia dei suoi oggetti. E lo scenario che all’inizio è diverso per ogni artista, via via stratifica ogni incontro, ogni passaggio, ogni ora trascorsa ad occuparsi di. È come se ad ogni incontro ritoccassi lo sfondo: sì è una vetta ma sotto c’è un lago abbastanza vicino, posso toccare l’acqua. Fino a che si delinea e si mette in movimento. È lì forse che comincio concretamente a stabilire l’ordine – il calendario – il modo in cui questa specie di panorama desidero venga visto dagli spettatori. È il processo – il tempo che va dall’intuizione all’opera – che lavora sugli oggetti e sul progetto, che lavorando sugli oggetti lavora sul progetto e che lavorando sul progetto – nei tempi di distacco che a volte mi prendo per interrogare di nuovo il sistema – ricade sugli oggetti.
Il tutto ha un carattere asincrono, intermittente, multiplo. È questa tangibilità dell’esperienza – la mia – che cerco di tradurre in ciò che poi si manifesta come “programma”.

Il 14 dicembre è andato in scena Vacantes di Giuseppe Vincent Giampino e Greta Francolini
Il 14 dicembre è andato in scena Vacantes di Giuseppe Vincent Giampino e Greta Francolini

Cosa cerchi, invece, nelle generazioni più giovani, quale voce, quale contemporaneità? Mi riferisco ad esempio al lavoro di due artisti-performer legati biograficamente e nel sodalizio, Das Ding (in scena a Tdv16 con un rinnovato “The red thing”), ma piuttosto distanti nelle rispettive opere solistiche come Giuseppe Vincent Giampino e Riccardo Guratti, e a un’artista radicale, lucida, anche se giovanissima, come Greta Francolini (di suo abbiamo visto “ATTWN – and then there were none”, oltre al duo con Giampino “Vacantes”), il cui lavoro ha il carattere così estremo, nella sua presenza-negazione, da ritrovarsi in un non-esserci ultra consapevole, pieno, con tutte le carte in regola per descrivere un mondo.
C’entra il tempo. Gli artisti che nomini sono per me importanti proprio perché sono inattuali, perché mancano quell’appuntamento con la contemporaneità che molti loro coetanei accolgono, legittimamente se vogliamo. E con questo sì, sono contemporanei.
Se li guardo come insieme – come tu me li proponi – posso dire ciò che penso li accomuni. Tutti e tre rischiano orizzonti autoriali autentici, accettano il caos dei processi di ricerca, rivoluzionano elementi, segni, composizioni e strutture rispondendo all’onestà della loro presenza sulla scena in una modalità totalmente radicale. Rispondono all’uniformità generazionale proponendo continue destrutturazioni, costruiscono e arricchiscono costantemente i loro strumenti di lavoro, interrogano le metodologie di ricerca, edificano archivi personali e collettivi, li disfano, rimangono liquidi. Sono disposti a riprocessare all’infinito un materiale scenico, a interrogarlo, a dissolverlo, a perderlo, a ricominciare da capo. Anche la loro ricerca è inestinguibile. Nel loro lavoro e in tale processo – indipendentemente dal fatto che risulti a volte più a volte meno efficace – ricontattano un passato remoto, si lasciano abitare ma non colonizzare perché hanno chiaro che il corpo (i corpi) sulla scena è l’unico dato reale della faccenda, anche nella sua sparizione. Espongono la loro fragilità, ne fanno una pratica.
In cosa si differenziano allora dai loro colleghi più anziani? In nulla e in tutto. In nulla perché aderiscono alla ricerca esattamente come loro. In tutto perché la cornice all’interno della quale si muovono, vivono e creano, è totalmente diversa. I loro mondi sono altro dal mio. Ha diversi colori, diversi animali, diversa vegetazione. Altre creature.
Vincent, Riccardo e Greta, nelle loro differenze e nelle differenze di esposizione di lavori che nascono anche dalle loro multiple collaborazioni orizzontali, disegnano un prisma, un oggetto magico composto di oggetti autonomi e al tempo stesso unitario. Guardare attraverso i loro occhi mi fa vedere cose che non vedo coi miei. Come guardare un organismo a un diverso grado della sua evoluzione. L’adulto e l’infante. A volte gli adulti sono loro.

Vorrei chiudere citando l’aneddoto che racconti nel tuo video-editoriale di apertura di TdV 16, in cui parli di un evento che risale ai tempi della scuola elementare. Ci sono una bambina che ha difficoltà a scrivere a una maestra fuori dal comune. Quest’evento, ci dici, potrebbe essere stato vissuto da te in prima persona o costituire niente più di un racconto porto da quella maestra; o, addirittura, non aver mai avuto luogo, essere frutto della tua fantasia di bambina, un nobile desiderio di riscatto. Ciononostante, quella storia è entrata a far parte della tua memoria come un segno sempre pronto a dischiudersi a più sottili o rinnovate letture.
Mi ha colpito la dichiarazione scettica sull’entità e persino sulla datità di quell’evento, ma ancora di più il rifiuto della posizione nichilista che potrebbe scaturire da tale scetticismo: “Comunque sia andata – concludi – la realtà resta inconoscibile e la natura del gesto, al centro della scena, è diventata oggetto di una ricerca senza fine”. Qualcosa, insomma, emette comunque dei segni. Questo è il teatro? Questo è il senso di esserci?
Provo ad osservarlo come fosse indipendente da me, come se non lo avessi scritto io.
Carlo Sini dice che i discorsi generali – quelli a cui dobbiamo gran parte di quello che sappiamo fare e sappiamo dire – si usano, non si sanno. Forse questo piccolo racconto vuole cercare di affrontare proprio ciò che si sa, cercando di toccare, con un’immagine, una sapienza originaria. Provo a capire.
Prima di diventare un video il racconto era un testo. Pagina d’apertura di un libretto.
All’inizio l’oggetto del racconto è imparare a scrivere e una divaricazione espressa dal conflitto tra maestra e allieva. Forse le due intendono cose diverse. La maestra intende la scrittura come un saper fare, saper scrivere, una competenza resa misurabile dalla performance, dal rilascio verso l’esterno. La bambina è forse consapevole che eloquenza e competenza sono anche radice di inganni – sempre Sini – e si rivolge all’interno, il dentro di sé, il biglietto piegato e chiuso, il buio della scarpa. Sintetizza quel sapere in una sola parola lunghissima, deposita quel sapere in una kora originaria e lo affida all’azione, al corpo. Lo agisce, non lo argomenta. (Come il teatro).
Poi però il racconto si apre come una parabola e attraverso la sua stessa struttura finzionale – un io che racconta in prima persona un ricordo della propria infanzia, lo afferra e lo perde – auto riflette su di sé aprendosi agli scarti e agli inganni che il discorso – e la memoria – nasconde. Un discorso che riflette su di sé ed entra nella vertigine dei discorsi umani, verosimili e scissi. Se cerco la misura del discorso nella realtà finisco nella vertigine, la realtà si allontana, sfuma, fino a rivelarsi per quello che è, inconoscibile – o conoscibile in modo parziale e storicizzato, cioè inconoscibile di per sé.
La vertigine potrebbe procedere all’infinito fino a dissolvere il fatto e la stessa parola che lo dice. Fino al totale silenzio e al totale bianco che imbianca perfino l’immagine facendola scomparire.
Invece più il discorso la dissolve, più l’immagine si fissa e quel gesto all’interno della scena, quel gesto tenuto insieme nei suoi significati dalla cornice che lo ha determinato, cornice costruita dal discorso, resta indelebile, nitido, fissato per sempre. (Come il teatro).
Sì, l’autrice vuole parlare del teatro.
Sto per chiudere il libretto quadrato che ho in mano e mi accorgo solo ora che la parabola non sta per sé. È a sua volta contenuta in una macro-cornice: è la prima pagina del catalogo di Teatri di Vetro.
Forse allora l’autrice ci sta dicendo che per iniziare a leggere quello che segue – le altre 59 pagine popolate dai più dissimili formati del discorso – o ancora di più, per vedere gli spettacoli a cui quegli scritti fanno riferimento e comprendere la relazione tra l’oggetto che ho tra le mani – il catalogo – e l’oggetto/evento che avrò la possibilità di vedere – il festival -, devo guardare in una direzione, dritto al gesto al centro della scena.
E ci sta confessando che l’accadimento reale del racconto è aver posato lo sguardo su quel gesto e che tutto il pensare, il dire, il fare che quelle 60 pagine evocano e contengono scaturiscono da quell’unico reale accadimento: la scoperta, nel tempo dell’infanzia, dell’esistenza di un gesto capace di determinare una ricerca senza fine (il teatro) o come lo definisci tu – l’enzima, il manovratore e al tempo stesso l’interlocutore dell’ulteriore cornice del dialogo, cioè questa intervista – inestinguibile.

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