
Delude, per adesso, la selezione del concorso ufficiale. Le pellicole più interessanti – e più teatrali! – sono state invece quelle in concorso nella nuova sezione Cinema XXI dedicata “alle nuove correnti del cinema mondiale”.
Un esperimento interessante è “Il regno delle carte” (Tasher Desh/The Land of cards) con la regia dell’indiano Kaushik Mukherjee (in arte “Q”) ispirato a un dramma musicale del celebre poeta e drammaturgo Rabindranath Tagore, primo non occidentale insignito del Premio Nobel per la letteratura (1913).
Un uomo si aggira per le stazioni di una grande città dell’India parlando con i treni. Vuole raccontare una storia che prende forma nella sua mente: la storia nella storia è quella di un principe condannato all’esilio, un sognatore prigioniero. Il principe, insieme al suo fidato amico mercante, scappa dal castello e, dopo un naufragio, si ritrova su un’isola sconosciuta.
Il film è una grossa produzione con cast internazionale e location tra le spiagge dello Sri Lanka e le rovine del Bengala; ha uno stile prettamente indiano nella narrazione (storie di amore e libertà, happy ending) ma una realizzazione innovativa che lo distanzia anni luce dai celebri film di Bollywood.
Le due parti del film si distinguono per stile: la prima vede un montaggio serrato e incalzante, immagini con un viraggio che va verso colori acidi e fluo.
Per tutto il film emergono belle musiche moderne (dal dub all’hip hop) scritte dal regista stesso e arrangiate da vari musicisti, tra cui il gruppo indo-britannico Asian Dub Foundation.
Attesissimo era un altro film della sezione: “Goltzius and the Pelican Company” di Peter Greenaway, presentato, oltre che nelle sale dell’Auditorium, anche al MAXXI Museo delle Arti del XXI secolo con un concerto introduttivo del quintetto d’archi Architorti, realizzatore di tutte le colonne sonore dei film del poliedrico artista inglese. Presenti in sala il regista stesso e Pippo Delbono, nel film con una breve parte e immortalato insieme al cast sul red carpet.
Ambientato nel Cinquecento, è la storia del tipografo olandese Goltzius che accorre alla corte di Alsazia per avere dei finanziamenti per la pubblicazione di libri illustrati. Il Margravio (l’equivalente di un marchese) accetta; in cambio desidera avere a corte sei rappresentazioni teatrali della sua compagnia su racconti erotici del Vecchio Testamento (Lot, Davide e Betsabea, Sansone e Dalida e altri) riguardanti altrettanti tabù sessuali: adulterio, necrofilia, voyeurismo…
Il secondo canone riguarda la recitazione e la messa in scena, totalmente teatrale. Greenaway concepisce il film come un teatro nel teatro che ricorda le tragedie di Shakespeare, con una compagnia di giro che mette in scena delle rappresentazioni, e con tanto di platea montata per l’occasione in uno spazio post industriale che ricorda uno studio cinematografico.
C’è un erotismo spinto, che da un lato ricorda le opere dell’ultimo Pasolini, dall’altro compie una critica severa verso un mondo ecclesiastico pieno di dogmi, che non fa mai trapelare il lato sensuale e carnale di alcuni episodi della Bibbia. I nudi e le scene di sesso sono girate come se fossero spettacoli (durante il set Greenaway girava continuamente anche per sei minuti) e una sorta di presentatore-maestro di cerimonia dona una ritualità a tutto il film, in bilico tra solennità e demistificazione.
Due pellicole interessanti e sui generis, con un impatto visivo originale; momenti di cinema “altro” necessari in ogni festival e interessanti da scoprire. Il festival continua e ci attendono altre perle per sviscerare e raccontare il suo “lato teatrale”. Nei prossimi giorni ve le racconteremo.