E dopo il teatro, eccoci in questa nostra ultima puntata con la danza, attraverso due pellicole particolarmente interessanti.
Il festival infatti ha stupito, più che per i film del Concorso ufficiale, per alcuni gioiellini presentati nella sezione Cinema XXI ovvero il cinema del XXI secolo.
È il caso di “La danza di Delhi” (Delhi Dance) scritto e diretto da Ivan Vyrypaev e tratto da un suo testo teatrale. Vyrypaev aveva incrociato il teatro italiano qualche anno fa, quando Teatrino Clandestino aveva messo in scena il suo “Ossigeno”.
Il film è composto da sette frammenti, sette cortometraggi indipendenti che hanno come protagonista una famosa danzatrice che ha inventato una danza straordinaria: “la danza di Delhi”, chiamata così perché l’ispirazione è nata nei caotici bazar della megalopoli indiana. Una danza indescrivibile, che si può comprendere solo vedendola.
Tutte le storie si svolgono nella sala d’aspetto di un ospedale: i protagonisti (oltre alla danzatrice, sua madre, il direttore di un teatro, un famoso critico di danza e un’infermiera) rincorrono amori e morte, malattie e arte. L’unica location enfatizza estremamente il lato teatrale del film, scandito dalla divisione in sette atti, ma che solo nella loro successione restituiscono un’opera compiuta.
La danza è protagonista nelle parole, nei dialoghi e nelle emozioni dei personaggi: quel velo di esotismo e mistero che è racchiuso nella genesi di questa particolare danza, che non vedremo mai, fa sì che tutta l’attenzione si sposti sulla intensità delle recitazioni. Poco importa se le storie si contraddicono, se ogni volta la persona ricoverata sarà diversa. Il meccanismo teatrale è qui al massimo livello perché tensione e rilassamento si alternano in velocità, giusto il tempo di riposarsi un minuto negli intervalli fra i vari atti della pièce.
“Delhi Dance” è sicuramente tra le migliori pellicole viste in questa kermesse romana, una spanna sopra molte altre per originalità, scrittura drammaturgica e interpretazioni.
Altro lavoro interessante è quello della regista e documentarista Alina Marazzi, che da sempre fa coesistere nei suoi lavori il cinema di finzione con il documentario, unendo a queste due anime così lontane anche una passione sfrenata per l’autobiografia. E dopo gli interessanti “Un’ora sola ti vorrei” e “Vogliamo anche le rose”, ecco che il nuovo “Tutto parla di te” conferma appieno lo stile della regista milanese.
È la storia di Pauline (un’intensa Charlotte Rampling) e della sua ricerca sulle esperienze e i problemi delle mamme di oggi, a partire da testimonianze, video e fotografie. Nel Centro per la maternità dove lavora incontra Emma, una giovane danzatrice, sola e in crisi profonda perché non sa come affrontare le responsabilità della maternità.
“Che belli i bambini quando sono in braccio agli altri”: da questa affermazione parte la regista, neo mamma e stimolata dalla battuta di un’amica. Ecco quindi che l’elemento autobiografico si annusa per tutto il film, e la tensione emotiva è accentuata da inserimenti “d’autore”: immagini di archivio, alcune in un intenso b/n, album di famiglia, vere interviste a neo mamme e una emozionante animazione in plastilina.
Alina Marazzi non ha paura di mettere in gioco sé stessa, concependo un film unico per originalità, e inserendo in questo mèlange anche momenti di danza (con Valerio Binasco nei panni del coreografo) a cura della compagnia milanese Fattoria Vittadini.
“Uno dei fattori che inquieta le donne che stanno per diventare madri – sostiene la regista – è l’incognita della trasformazione del proprio corpo in gravidanza e di quello che diventerà dopo la nascita del figlio. Ho pensato che fosse interessante mostrare il corpo snello ed energico di una giovane donna che sta per subire questa metamorfosi, e in particolare il corpo di una danzatrice, abituata ad avere il controllo assoluto del proprio fisico”.
Ancora una volta il festival ha regalato momenti interessanti anche a chi, solitamente, preferisce il palcoscenico allo schermo. La giovane arte cinematografica riesce benissimo a dialogare con le sue sorelle più anziane (il teatro e la danza, ma anche la musica e le arti figurative). È necessario, e stimolante, continuare a trovare le numerose connessioni tra espressioni artistiche così diverse. Per dirla con Eric Rohmer: “Il teatro non mi inganna mai perché mi inganna sempre, il cinema invece mi inganna sempre perché qualche volta mi fa credere di essere davanti alla realtà”.