Rivedere “Sad Sam/Almost 6” del giovane danzatore croato Matija Ferlin al Teatro Studio di Scandicci è stato come trovarsi sull’orlo di un trasloco e al contempo sulla soglia di una casa del passato appena riaperta.
Così, pur avendo già varcato l’estate scorsa, al Festival di Santarcangelo, il cerchio del secondo spettacolo del ciclo di “Sad Sam” – lo stesso di cui fanno parte “Sad Sam Revisited” e “Sad Sam Lucky”, ispirato all’opera del poeta sloveno Srečko Kosovel – decidere di rientrarvi ha cambiato innanzitutto la percezione della dimensione delle stanze, oltre che il colore, la forma e la sostanza degli oggetti familiari in esse contenuti.
A pensarci bene, la creazione multilinguistica dell’artista croato chiama multiple visioni e al cambiamento proprio all’interno del proprio diorama espressivo, profondamente personale e caratterizzato con estrema cura. Un richiamo così palese da rischiare di rimanere inascoltato, presupposto parallelo ma obliato a fronte della creazione di una singola identità. Dove la chiusura dello spettacolo in un’ambientazione autoriflessiva e l’uso totalmente eterodiretto degli oggetti di scena – relegati a metafora e a ricordo di un altro non comunicante anche se continuamente invocato – avevano infatti protetto l’estrema coerenza strutturale della performance, relegando però la prima visione a una posizione esterna e solo osservante di quel cerchio identitario in via di definizione.
Questi stessi elementi hanno provocato, durante la seconda visione, un capovolgimento di prospettiva, che del monologo di Ferlin si è trovata a considerare ulteriori direzioni di inclusione. E non ultima la possibilità di vedersi a sua volta quasi inclusa nel suo disegno.
Anche questa volta Ferlin ha accolto il pubblico dal centro del proprio cerchio di animaletti, nell’atto di nominare e conseguentemente depennare il nome di ciascuno di essi dalla propria lista di presenze. Anche questa volta abbiamo attraversato la soglia d’entrata del monologo perdendoci tra l’etimologia dei nomi e fra le loro momentanee collocazioni, deducendo o immaginando provenienze geografiche o probabili allitterazioni; ma questa volta le parole ripetute e riecheggiate (dalla memoria al palco, e viceversa) hanno varcato la soglia del singolare per arrivare ad assumere un valore plurale. Oltre a muovere la localizzazione di quel “adesso io sono” (traduzione dal croato del titolo “Sad Sam”) sulla linea di un tempo che comprende lo spettacolo, e che lo spettacolo a sua volta comprende, muovendosi come una lancetta isterica e trasfigurante sull’orologio dell’infanzia, su un tempo apparentemente immobile che sembra vegliarne il trascorrere.
“La ripetizione è la maestra di tutte le arti”, diceva qualcuno. Eppure è anche la via per la trasformazione, e dunque per il cambiamento lento, graduale e sperato di un nutrito esercito di animali antropomorfi, a cui Ferlin risponde con un training autogeno fatto di parola, movimento, canto e danza sul filo della ‘shadow line’ dell’esperienza universale.
In questo teatro dentro il teatro c’è posto per le aspettative, per un “All I need” e per le fragilità di un tiranno creatore pronto a imbracciare la propria invisibile chitarra per invocare il nostro prossimo atto o a esercitare il proprio potere immolando un agnello a solitario ‘exemplum’, unità di paragone per una parabola sacrificale animata. Ma soprattutto questo è il luogo del travestimento e della narrazione danzata, di corone, dita e abiti di carta con cui ritrarre la propria immaginazione e l’arbitrarietà dei suoi salti luminosi nello stop-motion di un’anima.
Questi fotogrammi saranno interrotti dalla scelta di un piccolo cavallo, “Modesto”, che girando le spalle ai suoi compagni aprirà l’entrata al secondo cerchio dello spettacolo e alla misurazione dolorosa dei suoi confini, sospesa tra lo stupore della scoperta (dell’altro, della sessualità, del dolore) e la malinconia per un interno irrecuperabile. Interiorità che contiene interiorità, ma che non può più dare voce alla precedente. Cerchio su cerchio, giro su giro, l’albero umano cresce sulle proprie ferite, ripassando su rughe e nodi dell’essere grazie all’arte del quasi. Quasi re e quasi “the first against the wall”, drammaturgo eterno di uno spazio abitato da una busta di personaggi ormai quasi muti.
SAD SAM / ALMOST 6
di e con Matija Ferlin
drammaturgia: Katja Praznik
scenografia: Artikl, Silvio Živković
costumi: Artikl
luci: Urška Vohar
collaboratori: Alexandar Nussbaumer, Mauricio Ferlin, Maja Celija, Maja Delak
produzione: Zavod Emanat, (Lubiana) e Ferlin (Pola, HRV)
coproduzione: Chez Buswick, (New York) e Zavod Bunker (Lubiana).
con il sostegno finanziario di Regione Istriana, Ministero della Cultura della Repubblica di Slovenia
con il supporto di Tanzquartier Wien e KulturKontakt Austria (artist-in-residence programme)
media partner Mladina in Radio Študent
durata: 1h
applausi del pubblico: 4’ 10’’
Visto Scandicci (FI), Teatro Studio, il 23 marzo 2013