Maurizio Donadoni rilegge un nostro classico: Pasolini

Donadoni e Alesini davanti alla foto di Pasolini
Donadoni e Alesini davanti alla foto di Pasolini
Donadoni e Alesini davanti alla foto di Pasolini
La voce di Maurizio Donadoni entra in scena, sola, con grande umiltà.
Poi compare in figura, ma appena lumeggiato dietro un tulle largo quanto il palco, che isola sul fondo Nicola Alesini col suo sax. Infine scivola davanti: è vestito di un completo “da prova”, del tipo brechtiano, da lavoro: tela blu, larghi bottoni, infilato sopra una camicia neutra, nera.
Umile è anche la dizione, propria di un narrare controllato, tanto che ha indispensabile stampella nel microfono, specie quando le parole si affastellano o soffiano.
E proprio l’umiltà sembra la cifra della messinscena. Non è l’attore che conta, né l’interpretazione a fare il testo: protagonista è il poeta, Pier Paolo Pasolini, raccontato dalle sue lettere e da alcuni, più rari, lacerti di prosa e versi.

“Carissimo Pier Paolo…” ha concluso gli appuntamenti che il Teatro Vascello ha voluto dedicare, in questa stagione teatrale, a Pasolini. Insieme a Donadoni hanno infatti ricordato la figura di uno tra i maggiori artisti e intellettuali del XX secolo Maddalena Crippa (con La Poesia di Pier Paolo Pasolini), Caterina Venturini (Nessuna Pietà per Pasolini di Maccioni, Rizzo e Ruffino), Antonello Fassari (La Ricotta), Fabrizio Gifuni (‘Na specie de cadavere lunghissimo), e ancora Gifuni insieme a Sonia Bergamasco con “Un’amicizia in versi – Attilio Bertolucci – Pier Paolo Pasolini”.

Sul palco galleggiano tre corolle affiancate di larghi fogli bianchi sciorinati in cerchio, due laterali, più piccole, una centrale, la cui pupilla ricorda la silhouette di Pasolini.

Il quadro scenico è inserito nella cornice del Teatro Vascello di Roma, un ambiente che, rinunciando al mistero, espone senza timidezze tutta la sua bellezza, che è quella del lavoro teatrale, negli sfori dei proiettori, nella slargata misura di un palcoscenico a misura di danza, nelle timide quinte appena aggettanti, nella prosecuzione della graticcia a vista fin sopra le caratteristiche poltroncine a libretto della sala.

Tutto in notevole sintonia con la struttura dichiarata e scoperta della drammaturgia, fornita al pubblico dalle proiezioni sul tulle del gesto, lungo l’intero spettacolo, di due mani nell’azione di aprire e consultare un faldone segnato dalla tripla P puntata, al cui interno altre cartelle-capitolo (Friuli, Roma, Cinema, ecc.) contengono fotografie del piccolo, del giovane, del maturo Pier Paolo, insieme ad altre, presumibilmente da lui scattate.

Questo il contenitore, la crosta dello spettacolo. Il dentro, il succo e tutto quel che poi oltre a ciò si ricorda, sono le parole del poeta, allineate con maestria, restituite con equilibrio e penetrazione.

Niente e nessuno più riempirà ulteriormente la scena, scarni saranno i movimenti, scarna la musica di Alesini, piuttosto un ambiente sonoro segnato qua e là dal sassofono, un lungo binario di cui si avvertiranno raramente i giunti sul quale l’assolato convoglio delle parole scorrerà diritto.

Si tratta di parole non tutte ignote al lettore pasoliniano, lettere che denunciano la po-vertà materiale e l’isolamento culturale, ma anche la feroce vitalità, la parziale resa degli anni tardi (se tardi possiamo chiamarli), la passione per Roma e per la vita vera, il disprezzo per la sovrastruttura pseudoculturale dell’educazione di massa.
Il pubblico ascolta il conosciuto e l’ignoto, il ritrovato e il risaputo con gusto, con partecipazione, con sempre vergine aderenza a una prosa minuziosa ma virile, di una ricchezza che non corre il rischio del barocchismo.
Questa è la forza e l’ulteriore riconoscimento di un poeta immenso, di un classico. Anzi, meglio: in questo, nella inesausta opzione della rilettura, sempre sconvolgente eppur capace di pacificare con la sua luce, di Virgilio, di Petrarca, di Tasso, di Pasolini, risiede la giustificazione (anche al senso comune) del termine “classico”.

Ecco perché, benché si parli della vita, a informare la scelta dei testi non è ‘la vita’ nel senso della curiosità, dell’improprio ingresso in un gabinetto che, orrendamente, è per giunta quello di un morto; è l’universo intellettuale.
Unica e un po’ troppo costosa concessione alla prospettiva ‘gazzettiera’ appare quella lunga permanenza sullo schermo del corpo di Pier Paolo Pasolini sotto il sudario dei propri vestiti, all’Idroscalo. Ma, nelle parole, piuttosto che sommare la sua ad altre trascurabili teorie scientifiche, politiche, e para e pseudo tali, Donadoni sceglie di raccontare la fine con uno smilzo verbale di questura.

Alle asciutte parole dell’appuntato, che contestavano a Pelosi Giuseppe il semplice furto di un’autovettura Alfa Romeo, ignorando ancora l’assassinio, oggi ci rifiorisce in cuore, come un duro fiore selvatico, cosa doveva essere quel vivere ‘prima’, quello stare ancora al di qua persino dell’attonimento, quella quasi ingenuità che precede un rompersi della terra, una morte mitica come poche altre, nella seconda metà del secolo scorso.

CARISSIMO PIERPAOLO…
recital su frammenti da Pier Paolo Pasolini
voce recitante: Maurizio Donadoni
musica composta ed eseguita dal vivo: Nicola Alesini
collaborazione all’allestimento: Giovanni Rizzuti e Miae Kim
durata: 1h 25’
applausi del pubblico: 2’

Visto a Roma, Teatro Vascello, il 25 marzo 2013


 

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