“Luoghi (non) Comuni” di musica e parole, dal cabaret gastronomico di Alessandro Sesti a quello “vocifonico” di Antonello Cassinotti
C’è la riflessione politica e la progettualità. Soprattutto, c’è l’arte al centro di Luoghi (non) Comuni, festival di Etre Teatro che riunisce 14 residenze artistiche lombarde. Sono Campsirago Residenza, delleAli teatro, Il Giardino delle Ore, Karakorum teatro | Spazio YAK, R.A.M.I. Residenza Artistica Multidisciplinare Ilinxarium, Residenza IDRA, Qui e Ora, teatro in-folio, Teatro Magro, Teatro Periferico, Quattrox4, PEM Habitat Teatrali, La Dual Band e MondoVisione.
Nel quartier generale del TeCa (Teatro Cassanese) a Cassano d’Adda, al confine tra la provincia di Milano e quella di Bergamo, le compagnie si ritrovano quasi al completo. L’Adda una volta divideva il Ducato di Milano dalla Serenissima Repubblica di Venezia. Custodendo suggestioni manzoniane e ricordando la fuga di Renzo Tramaglino a 150 anni dalla scomparsa dell’autore dei “Promessi sposi”, raggiungiamo il TeCa al crepuscolo di un ottobre dal meteo incerto, preludio a una stagione piovosa. Le giornate si accorciano. Ci accingiamo a spostare indietro le lancette dell’orologio, a pochi giorni dalla notte di Halloween.
Qualcosa di gioiosamente macabro c’è anche nell’installazione che ci dà il benvenuto al festival, a cura di Teatro Magro. Si intitola “Talking Heads” e ci accoglie nelle sale superiori del TeCa, palazzo dell’arte non ancora valorizzato appieno dalla comunità cassanese. Si tratta di tre teste parlanti diverse dal Cerbero di mitologica memoria. Sono distanziate, racchiuse in teche di vetro, avvolte da un cenno di vegetazione. Una è un viso scomposto in varie parti. Insieme sembrano maschere, statue, manichini per uno studio anatomico. Ci viene in mente Lombroso, ma anche i reperti archeologici d’epoca classica.
Un battimani ne avvia la voce, in una sorta di rewind dell’atto scenico. È l’anticlimax dello spettacolo convenzionale, perché qui l’applauso è atto iniziale dell’esperienza artistica, anziché sigillo e tributo conclusivo. Qui la maschera è il centro e l’attore è incorporeo. Si ribalta il presupposto del teatro, che è anzitutto relazione tra corpi vivi. Qui conta la voce, laddove le performing art sono comunicative anche senza parole.
Chi proprio alle parole non potrebbe rinunciare è il folignate Alessandro Sesti. Che in “Nato Cinghiale”, monologo costruito con la musicista Debora Contini (nell’occasione sostituita dal chitarrista e compositore Filippo Ciccioli) racconta una passione tutta umbra: quella per la caccia. Non è un caso che un proverbio locale sentenzi «guai a quell’uccello che passa tra Foligno e Spello».
Il racconto di Sesti è affascinante perché realista, ma di quel realismo magico che pare uscire dalla penna di Benni o Buzzati.
Sesti e Contini sono persuasivi perché narrano la loro terra e la loro gente. È l’Umbria ambivalente, patria di santi e bestemmiatori. È l’Umbria nostalgica, orfana del mare, tra selvaggina e stornelli, tra vino e giochi d’infanzia. I pranzi dai parenti: il tavolo dei bambini e quello degli adulti, da conquistare per i più piccoli come dentro un rito iniziatico. La caccia come vocazione e condanna, forse come educazione sentimentale: dalle lucertole con le loro code in perenne ricrescita, ai rospi, fatti scoppiare con una sigaretta in bocca. Dalle lepri ai pennuti, al cinghiale. Che qui diventa pietanza da cuocere in un pentolone davanti a noi spettatori.
La musica seduce, riproducendo anche i suoni della natura, mentre in sala si diffonde il profumo della carne in umido. La parola cattura.
Voce nuda, quella del narratore, che si colora di tonalità attraverso il microfono. E racconta. Il popolo della notte. Facce da bar, quelle di chi rincasa prima dell’alba dopo una notte di bagordi, quelle di chi parte per i boschi prima dell’alba, per accaparrarsi la postazione migliore in vista della battuta di caccia. Con il rischio di beccarsi una schioppettata nel fondoschiena.
Zimbelli, fruscii. Voce calda, roca, vellutata. Una narrazione ricca di dettagli sensoriali, tra leggenda e folclore, con distorsioni temporali, ciclicità, inversioni, prospettive multiple.
Il passato che si riflette nel presente. La celebrazione del cinghiale, simbolo di generosità e intuizione, animale coraggioso, schivo e burbero: comunque lo si guardi, finirà nel piatto accompagnato da un buon rosso, in barba all’aperitivo iniziale con verdure al pinzimonio e prosecco.
Bontà loro: due spettatori alle nostre spalle giurano di essere vegetariani, e che stasera per loro la cena carnivora è un’eccezione alla regola. È proprio vero – meditiamo – che uno spettacolo è riuscito nella misura in cui cambia le nostre prospettive, e dopo averlo visto non siamo più quello che eravamo prima di entrare in sala.
In esclusiva per Krapp, la ricetta di Sesti: «Il cinghiale va marinato una notte e un giorno in acqua. Poi carota, sedano, cipolla e aglio per iniziare. Si aggiungono anche rosmarino, alloro, salvia, ginepro e finocchio selvatico. Vino bianco a sfumare. Quattro ore di cottura circa. Al termine si aggiungono le olive nere e si aggiusta di sale pepe e peperoncino». La magia è servita.
Musica e parole anche con “Molly Bloom. Penelope infedele” della Dual Band. È il “musical per attrice sola e uomo che dorme” di Anna Zapparoli e Mario Borciani (anche a pianoforte e tastiere, con Beniamino Borciani al clarinetto e Carlo Battisti alla batteria) tratto dal capitolo conclusivo di “Ulisse” di James Joyce. Giochi di parole, figure retoriche di suono, e stilemi lontanamente brechtiani. Spettacolo che indaga l’anima femminile tra pensieri sconnessi e inferenze scostumate, con un linguaggio poetico e osceno che delinea alla perfezione il concetto di flusso di coscienza. Difficile tuttavia per il pubblico entrare nel loop narrativo, sia per la molteplicità e complessità degli intrecci, sia perché una piena fruizione dello spettacolo richiederebbe una conoscenza diretta (e fresca) del testo. Poche le variazioni di registro, sia a livello stilistico narrativo, sia musicale, malgrado la buona tecnica.
Meno ambizioso, ma senz’altro avvincente, “The Wild Party” di Ilinx Teatro. Luca Marchiori si misura con le atmosfere hard-boiled del romanzo di Joseph Moncure March di quasi un secolo fa. Viaggio nell’universo jazz, in cui è essenziale il ruolo di Bob Ferrante al basso e di Luca Pasqua alla chitarra, con musiche dal vivo che giungono a squarciare gli anni Sessanta. Echi dixieland, improvvisando secondo le regole di New Orleans e Chicago. E in più ci sono le vivaci illustrazioni in bianco e nero di Art Spiegelman.
Una femme fatale dentro un vaudeville. Un’umanità marginale e bislacca. L’ambientazione è quella di una grande città americana negli anni dei gangster e del proibizionismo. Personaggi dal carattere rude e disincantato, tra orge e risse, tra innamoramenti per caso, tradimenti, gelosie e sparatorie.
L’alcol scorre a fiumi. Le pistole sono sempre cariche. Le sigarette eternamente accese, tanto che si fatica e vedere e a respirare.
Candele, fuoco, bruti e gorilla nel cuore della notte. Mentre il jazz ci trasporta in un mondo onirico e maledetto, i disegni smaterializzano la realtà. Marchiori dipinge con la voce visi ombrosi e barzellette osé, sguardi languidi, traversi, trasognati.
Una storia che potrebbe sembrare lontana e fine a sé stessa, solo un naufragio nella letteratura di cent’anni fa. E invece parla di noi, perché raffigura un universo queer di lesbiche e bisessuali, di sentimenti eterni come l’amore, di passioni dannate come il desiderio di possesso e la vendetta disposta all’omicidio.
Musica e parole. Come “Il Vento tra i Fili d’Erba” del Giardino delle Ore di Simone Severgnini, in scena con Tommaso Severgnini. Atmosfere familiari sul palco e in platea. C’è un’anima popolare in questo lavoro senza pretese, eppure divertente come una serata tra amici in una casa o a una festa, in trattoria o in osteria. Juke box artigianale, girando una stramba ruota della fortuna, oppure pescando cantautori come se fossero spilloni attaccati a un ceppo. Dediche e gag, tra un brano di Guccini e uno di Vasco, spaziando da Sangiovanni a Caparezza, da De André ai Negrita ai Modena City Ramblers.
Il pubblico è coinvolto in uno scambio sapido di assoluto relax. E anche qui si sciorinano competenze musicali, dal flauto alla chitarra, dal basso alle tastiere, alle percussioni.
Chi invece fa tutto da solo è Antonello Cassinotti (delleAli Teatro) con il suo bislacco “Cabaret vocifonico”. Al centro le bizzarrie e le alchimie di una voce che pare sganciarsi dal personaggio, vola e plana in un saliscendi reticolare che ci ricorda le suggestioni di Demetrio Stratos, le mescola ai guaiti di Danio Manfredini e le porta alle estreme conseguenze. Siamo oltre il grammelot. Cassinotti bofonchia, tambureggia, rantola. Deforma le parole smaterializzandole, liberandone una vaga eco nell’aria. Padroneggia le sonorità di una lingua come il francese, parodiandone sovracuti e timbri.
Sconfinamenti orientaleggianti, tra kargyraa e xöömej. Gorgheggi, aliti, respiri. Solletichi, sollazzi, solecismi. Cadenze jazz e vocalizzi desunti dalle tecniche scat dei cantanti tradizionali, ma rivisitate in maniera buffa nel tono e nello stile.
«Non chiederci la parola che squadri da ogni lato / l’animo nostro informe», ammoniva Eugenio Montale: e denunciava la tragedia dell’autocrazia e della guerra. I venti sinistri che spirano dal Medio Oriente trovano un impalpabile controcanto in questa voce roca e misteriosa che si diffonde nel foyer del TeCa.
Suoni naif, e l’eco di un’animalità disarmonica. Una voce, mille voci. Un cortocircuito tra verbale e non verbale. Un dramma sardonico senza drammaturgia. Il tentativo timido di viaggiare verso l’anima. Un senso d’inanità per un cabaret fanciullesco, sciolto dai significati, che regala ironia e pensieri in un passaggio storico che invita all’afasia e al silenzio.