Novo Critico 2010. Teatro Forsennato contro gli psicologismi

Teatro Forsennato
Angelo Tantillo

Eccoci al sesto appuntamento di Novo Critico. Che cosa succede quando una docente di letteratura teatrale incontra una compagnia che del testo non vuole proprio sentirne parlare? In questo caso, si è trattato – come sempre, finora – di un confronto interessante: ecco dunque Florinda Nardi alle prese con Teatro Forsennato, nella persona del fondatore/autore/regista/attore Dario Aggioli e dell’attore Angelo Tantillo.

“Studio per un manicomio” è il titolo del nuovo spettacolo di cui la compagnia romana, attiva dal 2000, ha presentato all’Università Tor Vergata un breve studio. Se Alessandra Sini e Rossella Battisti avevano galvanizzato l’attenzione del pubblico costruendo una scaletta interattiva in cui si metteva in discussione la percezione dello spettatore rispetto alla danza, Aggioli e Tantillo esordiscono offrendo, in coda alle due scene presentate, un credibile spaccato di “dietro le quinte” in cui il regista tenta di ottenere dall’attore il lavoro desiderato.
Ed è un lavoro fatto di “dettagli” piuttosto che di “psicologia”, si dirà nel dibattito con la professoressa Nardi, alla strenue ricerca di punti di riferimento nell’analisi di un lavoro che sembra voler raggiungere le stesse altezze di altri ma ricostruendosi fondamenta nuove.

Aggioli, che qui racconta la vicenda del medico Carlo Angela (padre di Piero) che durante le leggi razziali salvò alcuni ebrei internandoli nel proprio manicomio come finti pazzi, ci tiene a scrollarsi di dosso ogni ingombro rappresentato dal lavoro di un attore sul personaggio. Piuttosto lascia spazio a un racconto estemporaneo che, seguendo un canovaccio stabilito, ricava una realtà scenica dalla somma di presenza dell’attore e immaginario del pubblico, che si fa “autore dello spettacolo”.
Tra tentativi di definizione, domande, esempi di lavoro, messa in discussione di maestri e modelli, ecco il resoconto dell’incontro e un’intervista ai protagonisti.

Novo Critico 2010. Sesto appuntamento, 3 novembre. Teatro Forsennato incontra Florinda Nardi

Intervista a Dario Aggioli e Florinda Nardi

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Autore chi guarda. 500 domande sul teatro (Dario Aggioli – Progetto cultura, 2012)

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  1. says: Chiara Candidi

    …Sia che il critico mi intervisti, apra un dibattito verbale con me, sia che io legga la sua recensione, il mio personaggio si confronta con il mondo reale, l’altro mondo, quello aldilà del proscenio e io mi confronto con un referente critico, che, ripeto, se è all’altezza, mi stimola, mi stuzzica, mi fa riflettere ulteriormente sulla mia opera (opera che cresce e acquista un senso sempre più ampio se si confronta con tante cose: il mondo reale, la mia vita quotidiana, la mia vita interiore, il rimando e la ricerca in altri ambiti artisti, il momento storico-sociale in cui è nata, il punto di vista del pubblico e la recensione del critico). Lo spettatore semplice, che non ha strumenti, ha ovviamente le sue reazioni, si emoziona, pensa e anche tutto questo per me è fonte di molto interesse, perché è al pubblico che voglio rivolgermi, che voglio dire, provocare delle cose, all’altro da me. La reazione e interpretazione del critico, ovverosia dello spettatore-intellettuale, mi fornisce in più una chiave di lettura altra, mi spiega cosa è successo fuori, dal suo punto di vista fornito di strumenti e preparazione all’altezza, mi racconta del mio personaggio, del suo mondo, della mia opera, cosa si è visto, cosa non si è visto, cosa ha suscitato, a cosa ha rimandato, in che cosa si ambienta, dove si colloca, cosa ha omesso e cosa ha liberato. Il che non devia in alcun modo il mio percorso sempre vivo all’interno della mia opera, ma lo arricchisce, gli dà una concretezza, un peso reale e, aldilà del percorso artistico individuale, dà memoria all’evento teatrale in sé, che di per sé memoria tangibile non ha.
    Forse, pensavo all’inizio, questa mia esigenza di avere un riferimento più intellettuale e critico, mi viene dalla mia formazione che in qualche modo si avvicina a quella in genere di un critico teatrale, in quanto alle scuole di recitazione prima e alle esperienze poi, nei teatri, sui palcoscenici, in giro per l’europa, in giro per l’italia, ho sempre abbinato uno studio anche teorico, una ricerca anche intellettuale, mi sono laureata al dams, mi è capitato talvolta di recensire spettacoli e più spesso quando vado a teatro mi capita di mettere per iscritto quello che ricevo dello spettacolo, per me, per la mia ricerca personale. Forse questo fa di me una bigama :-), non lo so, di certo quando scrivo di un altro spettacolo il mio punto di vista rimane sempre quello della teatrante, ma in quanto teatrante sento l’esigenza di un dibattito intorno al lavoro che svolgo, un dibattito che veda coinvolti altri teatranti certo, ma anche e sopratutto critici preparati, onesti e interessati.
    Vi ringrazio per questi spunti di riflessione e spero ve ne siano sempre di nuovi.
    Ciao e buon lavoro a tutti!

  2. says: Chiara Candidi

    Leggo con molto interesse il vostro dibattito, ho ascoltato la tua intervista. Parto svantaggiata perché non ho assistito alla tua proposta di spettacolo e non ho ancora potuto partecipare agli incontri di Novo Critico, manifestazione che reputo… “azzecatissima”, almeno dal mio punto di vista, quello dell’artista… io non amo molto su di me questa parola e preferisco definirmi per quella che sono, una teatrante, scrivo, dirigo, interpreto, sono prima di tutto un’attrice, lavoro, ricerco ormai da 12 anni nel teatro. E questa vostra discussione mi consente di riflettere almeno sulla mia di esperienza e forse di capire che è la mia formazione che mi conduce a pensare e sentire determinate cose anziché altre. Mi spiego meglio: dal mio punto di vista, per il teatro che faccio io, per come lo faccio io, la presenza viva, attiva di un critico è essenziale, che verbalizzi il visto e il non visto, il detto e il non detto di un mio spettacolo. Se ne sente la necessità, o almeno io ne sento la necessità, ovviamente sto parlando unicamente di critici preparati, che nel momento in cui assistono ad un mio spettacolo e poi ne scrivono sopra, abbiano la preparazione conoscitiva teatrale e gli strumenti intellettuali adatti per farlo, dato per assodato questo… le loro recensioni, le loro critiche, per me, creatrice dell’opera, sono fondamentali, perché verbalizzano l’evento spettacolo da un punto di vista intellettuale e non credo sia tanto la presenza dell’io o meno del critico, tra l’altro sacrosanta e inevitabile (soprattutto, a mio avviso, nel critico teatrale, in quanto l’opera teatrale vede una presenza umana, di carne e ossa nell’opera, totale e quindi l’analisi esteriore non può che essere fatta partendo anche da un’esperienza di empatia – nella carne e nelle ossa – con quello a cui si assiste, o per meglio dire: a cui si partecipa), dicevo non è tanto la presenza dell’io a pesare, quanto l’ampiezza dei suoi rimandi, la profondità delle sue analisi, la concretezza delle sue reazioni, personali, culturali e intellettuali. Credo che in teatro, più che nelle altre arti, la verbalizzazione da parte del critico, dell’intellettuale di un’opera teatrale sia fondamentale, soprattutto nel teatro contemporaneo, perché dà storia, testimonianza e fornisce all’artista uno spunto di riflessione e dialogo con se stesso, con il proprio personaggio, con l’altro da sé. Ovviamente io parlo, ripeto, partendo dalla mia esperienza, quando creo un personaggio, il suo mondo, lo spettacolo… è una creazione viva, che vive in me, che continua a vivere in me, anche tra una replica e l’altra, anche a distanza di mesi, anni, lo spettacolo cresce, muta, e quindi il punto di vista del critico fornisce al mio personaggio un terreno sul quale confrontarsi con se stesso…

  3. says: Dario Aggioli

    Premesso che secondo me, l’artista e il critico, proprio perché sono nella stessa placenta e perché ragionano insieme per costruire qualcosa intorno all’arte non possono chiudersi in risposte.
    Il pedagogo è pornografo raffinato. Se continua la ricerca, si pone sempre domande, ma nell’immediato penetra una verità che sa non essere esistente.
    Ma Vabbè! Su Terni lancia era una battuta.
    Non penso che le mie domande sono le uniche, ma credo che spesso ultimamente hai cercato una strada, ma purtroppo l’hai trovata e ti ci sei ogni tanto troppo stabilizzato… Come è giusto che sia!

  4. says: Sergio Lo Gatto

    Magari le risposte interessano a me.
    Per quanto ti piaccia porre solo domande (e sono d’accordo con te), credo che la mia posizione (almeno in questa fase) sia anche quella da cui offrire qualche risposta. Altrimenti la tua provocazione, in più, non serve davvero a niente. Altrimenti il tuo atteggiamento continua ad essere quello del pedagogo e non dell’artista. Nell’intervista dici che vuoi che il lavoro del critico serve anche a te a farti comprendere qualcosa di più. E sono talmente d’accordo che io le mie risposte me le do. E le tue sono solo (non minimizzo, eh) domande che si aggiungono ad altre, che già mi pongo da tempo e che spero di non smettere mai di pormi.
    La tua frase “le risposte sono pornografia pura” è una bella frase. E basta, per quanto mi riguarda. Una volta di più detta una legge in cui non mi riconosco. E se non mi ci riconosco è perché vado in cerca d’altro. La domanda senza risposta la lascio agli artisti. E ammiro (giudizio personale) gli artisti che sanno porre le giuste domande, mi invitano a restare seduto in platea. Tu a volte sei uno di quelli. A volte no. E proprio per questo la mia ricerca continua, per capire se esiste un meccanismo dietro. Per quanto mi riguarda sono d’accordo con Andrea quando dice che siamo tutti nella stessa placenta.
    All’esempio del viaggio a Terni (personalmente molto importante per tante piccole cose che magari non si vedono in superficie) avevo appunto aggiunto “convegni a cui partecipare, eventi da osservare, viaggi da fare per andare a scoprire che cosa c’è fuori da questo mondo”. In questa frase c’è tutto il mio pensiero sulla critica, almeno in questa fase della mia ricerca.
    Non credo di dover dimostrare niente di più di quello che faccio.

  5. says: Dario Aggioli

    sai che a me le risposte non interessano
    mi interessano solo le domande!

    le risposte sono pornografia pura!

    se il troppo è così troppo, come mai le sensazioni non sono le stesse?
    se il troppo dimostra? come mai tutto sto troppo non arriva?
    ma sto pubblico ‘ndo sta?
    in che direzione si manda il troppo per parlare ad un poco do pubblico?

    mi piace ripetere una cosa che dico spesso
    che diceva Braque
    “troppo colore uguale niente colore”
    e ribadito in questi giorni di lavoro con Enrique Vargas:
    “il meno è il più”

  6. says: sergio

    visto che con Dario ho già parlato privatamente.
    Tutto molto chiaro, non meno di prima.

    “Aprire un tavolo di discussione non so se sia utile, ma una birra con tutti andrebbe presa…”

    Il tavolo di discussione si è aperto già da tempo, Dario, già da tempo. Si chiama lavoro sul campo. Si chiamano gite a Terni per vedere Manfredini, ma anche convegni a cui partecipare, eventi da osservare, viaggi da fare per andare a scoprire che cosa c’è fuori da questo mondo.
    Non parlo solo a te, ma a tutti noi. Molti di noi lo stanno facendo. Non tutti, ma molti sì.
    E sono contento.
    Le domande che hai posto, al volo. Parlo personalmente:

    Il vostro lavoro è finalizzato all’arte o alla produzione?
    Alla cultura e alla civiltà, direi. E il vostro?

    Quanto vi state allontanando da noi?
    Per quanto mi riguarda vi sto inseguendo da un po’. E, come detto già a Dario, sono uno di quelli che lavora per far sì che gli incontri vengano istituzionalizzati. A livello anche internazionale. E stiamo andando avanti.

    Pensate che la mia sia una voce isolata?
    No, sarei stupido a pensarlo.

    Perché fate questo lavoro?

    A chi parlate?
    A voi, a noi e al pubblico. Troppo troppo troppo lavoro lo dimostra. Troppo. Troppo.

    Per chi parlate?
    Per voi, per noi, per il pubblico. Troppo troppo troppo lavoro lo dimostra. Troppo. Troppo.

    Che lavoro fate?
    Io faccio lo scrittore. Racconto questo mondo qui, come ne racconto tanti altri. In tanti modi diversi. E come in ogni cosa cerco di andare a fondo. Nell’unico modo secondo me possibile: porre me stesso dentro quella situazione.

    Grazie a tutti.

  7. says: Dario Aggioli

    IL GIUDIZIO (per Andrea)
    Nessuno vuole sfuggire ad un giudizio, ma se il giudizio deriva da un articolo che non si confronta con l’artista e con lo spettacolo, con la sua estetica o il suo linguaggio, noi che lo leggiamo a fare?
    A noi può interessare?
    Può interessare al pubblico?
    Può riavvicinare le persone al teatro?
    A chi serve?
    Rimangono altri critici e operatori…
    Parliamone.
    Davanti ad una birra…

    SULL’IO (per Roberta)
    È chiaro anche che l’io non può non esistere, ma il punto di vista unico (e ripeto unico) del critico a chi interessa? E a che serve? Nessuno vuole cancellare la personalità del critico, anzi. Ma mi piacerebbe che la competenza e l’esperienza fosse utilizzata per avvicinare un pubblico e accompagnare il teatro verso di esso. Quanto la critica non si confronta con il pubblico di non operatori? quanto non si proietta verso loro come lettori? Quanto non cerca di dar voce anche a loro? Perché quel “io” non racconta anche “loro”? Quanto ci stiamo allontanando tutti dal pubblico?

    SULLA DOMANDA (per crowsdreamer)
    Non so chi tu sia, ma io sono un ricercatore e un ricercatore è uno che fa domande e non da le risposte, perciò se la mia domanda anche se non interessante ha fatto nascere tutte queste altre domande e considerazioni, sono felicissimo…

    SUL CHI LEGGE (per Simone)
    Ecco chi ci e vi legge, i panda morenti! Hanno scritto sì i critici concorrenti, scriveranno i teatranti, magari anche gli operatori, ma il pubblico vi legge? Ci legge?
    Per me bisogna aprirsi e il dibattito non deve essere tra noi, ma anche tra altri…
    Onestamente io sono uno che vede sempre il bicchiere mezzo pieno, ma questa volta non ce la faccio.
    Anche per voi: ma vi bastano che vi leggano gli altri critici?
    O i teatranti di cui scrivete?
    O gli operatori che si affidano al vostro lavoro?

    E ora per tutti un po’ di domande e un’ulteriore provocazione:
    Il vostro lavoro è finalizzato all’arte o alla produzione?
    Quanto vi state allontanando da noi?
    Pensate che la mia sia una voce isolata?
    Perché fate questo lavoro?
    A chi parlate?
    Per chi parlate?
    Che lavoro fate?
    Se tra i critici si parla di conflitto d’interesse, perché si parla principalmente di quando qualcuno di voi fa l’attore, l’autore o il regista e non si parla mai di quando i critici fanno gli operatori, i direttori artistici o gli uffici stampa?
    Chi ci guadagna di più con una critica positiva propria o di u amico, il critico/teatrante o il critico/ufficio stampa o il critico/direttore artistico?

    So che quest’ultima provocazione può essere considerata sterile (e magari anche per me lo è), ma vorrei darvi uno “spaccato” dei punti che secondo me allontanano i critici dalla critica e la critica dai teatranti, che danno luogo anche alla visione del critico narcisista, anziché politico (nonostante tutti gli sforzi pur apprezzabili)

    Aprire un tavolo di discussione non so se sia utile, ma una birra con tutti andrebbe presa…

  8. says: Dario Aggioli

    Primo ciao a tutti!

    Non ritiro nulla di quello che ho detto!
    Mi spiace un po’ di aver lanciato l’amo e che abbiano abboccato dei pesci diversi da quelli che speravo…
    Ma va bene così, nonostante tutto voi siete i più vicini e dai quali un nuovo discorso può nascere.

    Diciamo che stonava anche a me dire che non avevo incontrato nessuno che si era confrontato con me in un certo modo. Se guardate il video, mentre lo dico guardo avanti in maniera un po’ strana, avevo Russomanno davanti! Lui è uno che si è confrontato con il mio lavoro, con cui ho discusso e parlato. In quel momento non era giusto anche nei suoi confronti, ma generalizzare in quel momento mi sembrava utile per la provocazione.
    Poi devo dire che devo ammettere che proprio dal confronto epistolare con Andrea, i miei dubbi sul finale de Le Voci di Fuori hanno avuto forza e hanno cambiato lo spettacolo.
    Mentre leggevo Andrea, il mio pensiero si è soffermato su il tamburo di kattrin e su Roberta con cui ho avuto ben più di un confronto e che scrisse proprio un articolo molto analitico sulla direzione dello spettacolo
    E chi ti trovo dopo? Roberta!

    Comunque non ritiro la provocazione, ma vorrei chiarire dei punti, che a me dicendoli sembravano chiari e anche risentendoli, ma a leggere voi non lo sono…
    1 – non voglio far scomparire la critica e non penso che sia inutile, ma che una critica che lavora in un certo modo è inutile e che soprattutto aiuta la barca ad affondare.
    La provocazione non è fatta per fare, ma per aprire un tavolo di lavoro
    2 – non credo assolutamente che la critica sia scollegata dal nostro mondo, anzi. Credo che anche dalla critica si può passare per risollevare la nostra crisi di pubblico.
    3 – non nego la svolta della nuova critica, ma non credo che sia così ben delineata e non sia ancora molto influenzata dal percorso fatto finora dalla critica istituzionale (inoltre penso che alcune firme giovani stanno già subendo un’involuzione da questa estate)
    4 – Non nego ai critici, soprattutto la nuova leva, di avere le competenze, anzi a volte sono anche troppo presenti (ma mi spiegherò meglio nella risposta a Roberta)

  9. says: Simone Pacini

    Caro Dario,

    non so se la critica sia inutile o meno, personalmente non la leggo.
    Però leggo klp, che negli anni ha dimostrato di essere non solo un vero luogo di incontro fra chi si interessa di teatro (lo dimostrano i due interventi qui sopra di firme “della concorrenza”) ma ha anche il merito – con la sua grande varietà di articoli, interviste, commenti, cronache, risorse multimediali ecc. – di far apparire il teatro meno squallido e noioso di come, a volte, è. Senza prendersi troppo sul serio, sopratutto.

    Saluti
    Simone Pacini

  10. says: roberta ferraresi

    Caro Dario,
    anch’io nonostante tutti i doppi e i tripli lavori di oggi non sono riuscita a resistere: provocazione riuscita in pieno. Spero che questa risposta non ti sembri una specie di difesa sindacale: è solo che fa un po’ male, con tutti i salti mortali del caso che servono per fare teatro, trovare delusione e insoddisfazione presso qualcuno di coinvolto nel tuo lavoro, all’interno di un discorso per altro che cerca di non tenere fuori nessuno.
    credo che la dicotomia oggetto/soggetto, nell’arte quanto nella scrittura, sia una separazione superata da un bel po’. la distruzione strutturalista del soggetto e il suo recupero me(ga)lomane decostruzionista sono penso entrambi assorbiti. l’arte è una mescolanza di oggetto e soggetto, di processo e prodotto e ognuno sceglie (artista o altro che sia) la sua posizione all’interno di queste costellazioni. ad esempio magari io cerco di non usare mai “io”, ma è ovvio che lo sto usando, mentre sto scrivendo, guardando, parlando: ogni opinione, colta o meno che sia, pure quelle elegantemente semiotizzanti, sono impregnate, profondamente, visceralmente, di io. be, per fortuna: guardare uno spettacolo è sempre un incontro fra delle soggettività, credo sia molto importante che entrino in gioco quando poi ne devi raccontare ad altri. perché è in quell'”io” che si incontra la gente, che si avvicina il pubblico. e nel soggetto (scrivente, creante, leggente…) entra in gioco anche l’emotività, non c’è niente di cui vergognarsi: partecipare a uno spettacolo non è semplicemente un’esperienza di analisi, neanche per un critico. e concepire il critico come qualcuno che – per qualche dono di retrogusto sovrumano – può portare avanti analisi lucide escludendo il sé, a differenza del pubblico normale, mi sembra un po’ fuori luogo.
    è singolare come ci troviamo ancora a discutere del pubblico allontanato dai teatri (dai critici, dagli artisti, dai teatri stessi). sicuramente è una condizione che si trascina anche oggi, ma volevo farvi notare invece come i teatri si stiano nuovamente riempiendo di pubblico (almeno da queste parti). persone piu o meno giovani, non del settore in buona parte, nuove e curiose, che si avvicinano agli spettacoli. ovviamente è una questione che ha una serie di implicazioni e contesti enormi, non è possibile trattarli in breve qui. ma il teatro di oggi, in mezzo a tutte le atrocità del caso, mi sembra tutto fuorché morto. e il pubblico, pure, anzi. ma queste sono appunto opinioni personali e mi spiace se Dario, nella tua esperienza, non hai ancora potuto incontrare qualcuno – pubblico o critico che sia – che abbia saputo intercettare i tuoi percorsi di creazione.
    ci siamo conosciuti molti anni fa. sai come lavoro (e probabilmente come lavoriamo, aprendo alla vivacità degli ambienti di cui parlava andrea) e forse anche che sacrifici acrobatici dobbiamo fare per lavorare. e per cosa, in fondo? per parlare di teatro. dici che la critica è inutile, certo che lo è, come tutta la cultura: in un mondo in cui viviamo esistenze precarie, tiriamo avanti a singhiozzo, fra una bolletta e l’altra, fra disoccupazione e un governo che abbastanza se ne fotte, apparentemente non c’è niente di più inutile che fare cultura. e parlarne. sembra masochismo per di più anacronistico. e con quello che costa.
    Ogni prospettiva è appunto personale, ma nei tempi di oggi, in cui dilaga un senso di impotenza individuale volutamente diffuso, che chiude le potenzialità del singolo nella sua frustrazione domestica; che come si dice (cit!), il giudizio è sempre sospettato, compromesso, evitato, dalla politica alle partite di calcio; oggi che abbiamo questo tipo di governance e governo e governanti e nessuno ha tempo o voglia o senso di andare a dire qualcosa, a fargli tremare le scrivanie. be, in tempi come questi, trovo difficile accettare idee per cui la critica (e non voglio tirare fuori cazzate storico-etimologiche) non dovrebbe occuparsi del giudizio. è di fondo, credo, quello che dovrebbe fare: se facesse promozione si chiamerebbe promoter e se presentasse, per esempio, si parlerebbe di presentatori 🙂 . ogni prospettiva, appunto, è personale, ma questo è quello che faccio ogni giorno. e non si tratta narcisisticamente di esprimere un mio giudizio che è migliore del tuo e degli altri: si tratta, e ci provo tantissimo a farlo, di insinuare dubbi, porre domande, interrogare le opere e i tempi. nella speranza che si possa diffondere questo gusto per la riflessione, per l’approfondimento, per il coinvolgimento. e per prendersi la responsabilità di dire la propria opinione su quello che incontriamo.
    certo dici giustamente che, in questi termini, ognuno potrebbe fare (essere) critico. be, dico io, per fortuna. per fortuna. sai mai che in questo modo prima o poi non si riesca a cambiare qualche cosa (anche fuori dai nostri giornaletti, palchi, baretti).

    Roberta Ferraresi

  11. says: Andrea Pocosgnich

    Caro Dario ,
    possibile che siamo ancora a questo punto? Possibile che siamo ancora ai blocchi di partenza? Siamo rimasti ad analizzare il discorso critico dal punto di vista dell’emozione del critico o dell’oggettivizzazione? Non hai mai trovato un critico che è riuscito a oggettivizzare? Ma cosa ti è capitato di leggere?

    Tra l’altro mi sembra ci sia una contraddizione: vuoi che il critico discuta con l’artista, e siamo d’accordo lo facciamo sempre, e poi vuoi che il critico faccia sparire la parola Io?

    Chiariamo una cosa: l’uso della prima persona semplicemente ci avvicina il lettore, ci fa rischiare senza rete di protezione, chi ha visto nascere la propria figura professionale sul web sa di cosa parlo. Parlare in prima persona vuol dire anche andarsi a cercare i lettori uno per uno, significa scendere da quel piedistallo come già aveva fatto la nuova critica negli anni 60, è una presa di posizione e non un voler parlare di noi stessi.

    La prima persona indica che siamo lì con voi, che anche il nostro è un lavoro in divenire, nuotiamo nella stessa maledetta placenta caro Dario come fai a non accorgertene? Non siamo i critici che si fanno controllare l’automobile parcheggiata in seconda fila dall’ufficio stampa del teatro, siamo quelli che come voi artisti fanno il doppio lavoro, quelli che per lo più si pagano i viaggi per venire dietro le quinte da voi e certo siamo anche quelli che vi giudicano, ma senza scappare, a viso scoperto.

    Caro Dario io capisco la provocazione ma definire la critica inutile oggi vuol dire proprio negare il presente, vuol dire non avere la percezione di quello che succede, di quello che brulica già in superficie. Riviste come Klp, Del Teatro, Il Tamburo di Kattrin, Scanner e senza finte modestie ci metto anche la mia, con il loro lavoro sono motori di cambiamento e stanno accompagnando, oltre che raccontando, la nuova vitalità del teatro. Vedi, se i lettori e gli operatori avessero perso fiducia sarei d’accordo con te, ma non è così, queste riviste vedono aumentare sempre di più il proprio pubblico e gli operatori chiamano i critici per dibattiti, incontri (vedi novo critico appunto), laboratori e rassegne guardando sempre di più in direzione del web.

    Il giudizio … questo mostro!

    Ebbene rispetto proprio all’abbandono del giudizio che è una scelta maturata in un momento di cambiamento epocale appunto, gli anni ’60, quando nasceva un nuovo teatro e la critica difficilmente poteva continuare sulla propria strada perché si trovava di fronte a qualcosa di nuovo che la destabilizzava, oggi la strada è invece spianata, la maggior parte dei giovani critici teatrali non viene dal giornalismo ma dalle università (o meglio da quella geniale discarica di talenti chiamate una volta Dams o affini) dunque ha gli strumenti di cui Florinda Nardi parla e non ha paura di giudicare il nuovo teatro perché ha studiato le esperienze passate, si è documentato e in definitiva perché non vuole nascondersi.

    Perché scusami Dario, ma non mi sembra proprio il momento storico nel quale rinunciare al giudizio o all’esposizione sia d’aiuto, in nessun campo. Poi certo se quell’Io di cui parlavamo diventa “iperesposizione” e narcisismo allora è un altro discorso… ma rientra in una sfera che non penso sia interessante e tra l’altro è un fenomeno che nelle nuove generazioni non mi sembra di riscontrare.

    Il nostro Io è politico più che narcisistico.

    Un abbraccio, di tutto questo riparleremo di fronte a una birra, ma stamattina non potevo resistere… la provocazione è riuscita!

    Andrea Pocosgnich — Teatro e Critica