Terni Festival, decennale di quesiti contemporanei. Quale spazio? Quale gesto? Quali artisti?

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Il Fire Poem di Robert Montgomery a Terni (photo: facebook.com/ROBERTMONTGOMERYARTIST)|Giulio Cesare - Pezzi staccati (photo: ternifestival.it)|Legend & Rumours di Phil Hayes
Il Fire Poem di Robert Montgomery a Terni
Il Fire Poem di Robert Montgomery a Terni

«All Europe must be / everywhere a refuge / for the brokenhearted». Fiammeggiano le parole, intrise lettera per lettera nella glicerina, ed esposte sulla prua di Ponte Carrara, nel “Fire Poem” di Robert Montgomery.

Nel frattempo si spengono le ultime note, infinitamente risonanti, della Sarabanda dalla seconda suite bachiana che fa da inatteso (ma da tutti sognato) bis al Live Set ultracontemporaneo del violoncellista Michele Marco Rossi, nella vicina Sala dell’Orologio.
Ed ecco subito aprirsi la porticina della piccola foresteria rinominata Base X che alcuni gruppi presenti a questo ricchissimo decimo Terni Festival (fino al 27 settembre) hanno fatto loro, stanza per stanza, immaginandola con la propria personale voce, e approntandola nel segno di una ricostruzione degli spazi agita e progettata.
Il corso spartisce Terni come in due ali, cambiando qualche volta nome; strada facendo, dalla bella piazza Europa si arriva fino all’immensa pressa siderurgica da dodicimila tonnellate che siede come un Titano incatenato nella piazza della Stazione. Percorro quel viale trasparente per centinaia di metri, e lo vedo opacizzarsi: la vista prima sgombra è interrotta da un altro più agile colosso che, a salti, si accresce: i ternani stanno tirando su un monumento estemporaneo, dalle linee che ricordano il retro-stante palazzo della Provincia, se non fosse per il colore bruno, tipico del cartone, in piazza Tacito.

L’ostacolo e lo spazio oltre l’ostacolo

La dinamica tra spazio pubblico e spazio privato, la ridefinizione del lecito, la ricostru-zione del comportamento comunitario in un luogo da tornare a far proprio, penso.
Allora mi avvicino al potente arco partecipato di Olivier Grossetête che, costruito in poche ore, ha mutato il paesaggio agli occhi dell’intera cittadina, svettando di venti-cinque metri sul lastricato solitamente sgombro del piazzale.
Non c’è ternano che, a opera costruita, non si sia fermato a dire la sua (e spesso a ridire, burbanzoso) per le ventiquattr’ore che si è lasciato in piedi, prima di vederlo ab-battuto come un grosso animale – e qualcuno ha riferito che, nel tonfo del cartone molle di pioggia, si sia udito un ultimo sospiro di resa.

Se è lecito costruire e demolire (o per demolire), è lecito seguire uno sconosciuto?
Il viaggio dall’interno della Base X che Delogu/Sirna/Gautier ci invitano a fare è que-sto, per tre ore, dietro “L’uomo che cammina”. E non è solo la scoperta di spazi cittadini “altri”, ricavati sulle sponde intricate del Nera, o su cui è caduta l’ombra della trascuratezza, del degrado o di una fruizione avida imprevedibile e viscerale, destinate al lento disfacimento e all’oblio o per dimenticanza o per violenza di abuso; ma anche tentativo di vera evocazione emotiva “da” un luogo e non “in” un luogo, quale che sia.

Questa realtà reale, imprevedibile eppure aperta al dialogo, e persino al miracolo di qualche apparizione (un gatto, un treno, un bambino) è l’esatto opposto del laboratorio asettico in cui, bene o male, si rientra con “Eco”, di Opera, che tenta un imperfetto collegamento (forse di punto di vista, di veduta, come suggerisce una collega), tra due soggetti: l’osservatore che guarda in un pozzo e una delicata animula burattinesca oscuramente natante, che fluttua quasi al soffitto, manovrata da una persona vera, schermata da un paravento di porte con provvidenziali spioncini, e che ci prende dalla strada per riportarci in un ambito di istallazione più tradizionale.

Il pubblico, teoricamente libero di muoversi nello spazio, è invece intimorito, a volte forse non sufficientemente stimolato, e basta quest’indecisione a sporcare l’opera – quell’opera che, nel candore, nel sanguigno, nell’orrore, nell’impassibilità di forme e dinamiche è impossibile invece sporcare nel “Giulio Cesare – Pezzi staccati” di Romeo Castellucci. Neppure un cavallo può.

Giulio Cesare - Pezzi staccati (photo: ternifestival.it)
Giulio Cesare – Pezzi staccati (photo: ternifestival.it)

Durante la replica di domenica l’animale, che deve entrare in scena (il rumore degli zoccoli netto e disordinato insieme è un grido), si innervosisce. Bisogna scrivere con una vernice bianca “MEN” sul suo fianco. Il freddo della vernice lo fa ritrarre, ombroso. L’operazione dura qualche minuto.
Cesare, vestito di rosso, è eternamente calato nell’attesa della sua toga, succube e parte di un ordine superiore, semplicemente implacabile, come l’arte di Castellucci, che ha della geometria.
I “pezzi staccati” cui allude il titolo sono quelli che Castellucci ha provato a isolare dallo spettacolo della Socìetas del ’97, e che sono stati presentati a Bologna durante il recente progetto “E la volpe disse al corvo“, curato da Piersandra Di Matteo e premiato come Miglior progetto artistico / organizzativo negli ultimi Ubu.
In scena i due brani shakespeariani del dialogo tra Flavio Marullo e un ciabattino e il monologo di Marc’Antonio sono intervallati e circondati da altri momenti dello spettacolo originario, in un flusso lineare e saldo sull’esplorazione della sorgente organica, politica, estetica del discorso, e sulla sua privazione (l’orazione funebre di Marc’Antonio per Giulio Cesare è affidata ad un attore laringectomizzato).

Che fare? Fare, chi?
A ricollegare i gesti sconnessi ci pensano Hayes/Jerez/Kasebacher con “Legends & Rumours” chiedendosi: “Cosa trasforma un momento in una leggenda?”. È anche questo, in verità, un montaggio a forza di mani e di scotch, come in piazza Tacito.
La memoria apparentemente trascurabile di un gesto è la prima luce sorgiva: «I remember I was here». A cui poi, immediatamente e innegabilmente, se ne lega un altro, per gemmazione, a costruire un sintagma spaziale fra le quattro mura di una stanza, realistica di tutto punto. I gesti, però, sono senza un vero contenuto, e non mostrano rapporti densi, ma ciecamente si ritrovano giustapposti.
L’uomo guarda la donna, si sposta da un lato, il secondo uomo si alza in piedi, l’uomo si tocca i capelli, si allontana… Le azioni, come somma di gesti, diventano aleatorie e meno chiarificatrici a mano a mano che dovrebbero farsi più complete, e ora sono erotiche, ora comiche, grottesche, fantascientifiche, infantili, disgustose, penose, tragiche, offensive, assurde.
«I remember» è la frase magica che giustifica ogni cosa, nel tentativo di ricostruire un senso, forse, a partire dalla sua corazza esterna, l’esserci stato: se si ricorda che così è stato, che questo è stato, questo deve essere e qualcosa vorrà pur dire, ma quella corazza si è staccata dal molle del senso che conteneva, ed è muta. Lo spazio è sconvolto dalle azioni, gli oggetti trascinati e distrutti, l’essere umano sovrasta e strangola le cose con la sua presenza proprio come era in grado di fluirvi con Delogu.

Legend & Rumours di Phil Hayes, Maria Jerez e Thomas Kasebacher (photo: ternifestival.it)
Legend & Rumours di Phil Hayes, Maria Jerez e Thomas Kasebacher (photo: ternifestival.it)

In un simile spazio contemporaneo si muovono le storie di El Conde de Torrefiel, dodici “Escenas” di vita quotidiana (e a volte un po’ più eccezionale). Storie penose di inettitudine e caparbio squallore, di incapacità a centrarsi, di volutamente crassa convenzionalità in un teatro di scabrosa aridità formale (scenografia ed elementi tec-nici all’osso), tanto imperniato sul racconto da mostrarci le parole, al di là delle necessità di traduzione, proiettate sul fondale. Dove però, al massimo della freddezza corrisponde un inatteso massimo del sentimentalismo, e la convinzione di un legame travagliato tra gli uomini, esprimibile a parole, di una malinconia stanca e acida eppur sempre balsamica, di una tenerezza persino verso il disprezzo che si prova di sé, preludio forse all’esistenza dell’anima.
Una simile fiducia illumina una scena alleggerita non solo nei suoi orpelli, ma anche nel livello comunicativo reso digeribile e posto a fare i conti con un contenuto che deve mostrarsi forte per sostenerne la leggibilità. E non sempre riesce.

Come forse si perde in una ragnatela tecnicistica di diversi percorsi dettati tramite au-ricolare e in un paradosso sulla libertà “Il grande rifiuto” di Ligna, ricostruzione storica a metà fra il gioco di ruolo e il dramma didattico brechtiano, un percorso per spettatori (e nessun attore) attraverso la storia dell’ingresso in guerra dell’Italia nel ’15 e la capacità di esimersi, di dare diniego e progettare un rifiuto di classe.

Dallo spazio al gesto, alle azioni, all’opera, al senso dell’essere autore dell’opera. Disperatamente scende alla pratica “Be Normal!” di Teatro Sotterraneo, proponendo l’invito a trovarsi un lavoro vero, a schiacciare i vecchi che non ci lasciano il loro posto e i loro soldi, e far fuori questo tumore dell’essere artisti, che ci porta al fallimento. Inattuabile ma golosa la “modest proposal” che suggerisce una eliminazione fisica su basi statistiche degli artisti di troppo, che intasano il mercato.

Altre indagini su spazi (“Il Gioco del Lotto”, laboratorio di due giorni su spazio pubblico e arte nella sfera sociale) e opere (“Thyssen”, monologo di Caterina Balucani, regia di Marco Plini) e attività creativa (2015: We are not going back, We need to pass, progetti di residenza commissionati ai migranti bloccati a Ventimiglia) lavoreranno alle stesse temperature siderurgiche, distribuiti in sette luoghi ternani per un’altra intensa settimana. Presto nuove corrispondenze.

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