“Ma a che ci serve la verità che tranquillizza l’onesto proprietario? La nostra verità possibile deve essere invenzione, ossia scrittura, letteratura, pittura, scultura, agricultura, pescicultura, tutte le ture di questo mondo.”
(Julio Cortàzar – “Rayuela. Il gioco del mondo”)
Pontelagoscuro è una frazione del comune di Ferrara che conta 6.000 abitanti, una ramificazione della città ad essa prossima secondo logiche ormai consumate di economia urbana.
L’eco del paese che fu, distrutto dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, poi ricostruito ed infine rimodellato dall’ immigrazione marchigiana degli anni Cinquanta in seguito alla chiusura della vicina miniera di Cabernardi, si fa denso nell’aria.
Proprio in timido omaggio verso il suo passato di borgo (ad insaputa di ben più di un autoctono), Pontelagoscuro vanta ancora una piccola e attiva stazione ferroviaria che collega la frazione alla città. Mi attengo tuttavia alle indicazioni ricevute e scendo dal regionale veloce proveniente da Bologna alla stazione di Ferrara. Raggiungerò Pontelagoscuro in macchina, costeggiando i campi rigogliosi della campagna emiliana, bagnati dalla luce della prima canicola. Scaramanticamente, suggestionata da memories letterarie di misteriose Macondo, non controllerò più, fino al mio ritorno, di aver preso o meno una svista in quelle ricerche online che mi garantivano l’esistenza della fermata “Pontelagoscuro” sulla mia tratta.
Sono i giorni di Totem Arti Festival, quarta edizione del festival organizzato dalla componente più giovane di Teatro Nucleo, compagnia che da fine anni Settanta ha fatto di Pontelagoscuro non solo la sua terra d’adozione, ma ha intrecciato le proprie radici lontane con il passato e le sorti della comunità locale.
Il loro teatro è il Julio Cortàzar, uno degli spazi di residenza artistica sostenuti oggi dalla regione Emilia Romagna e in virtù del quale Teatro Nucleo è tra i firmatari di alcuni documenti di un recente dossier che non solo tira le somme di ciò che è stato di questi primi tre anni di nuovo decreto, ma che coinvolge le riflessioni di quegli spazi di residenza che hanno scelto di non ricadere nelle maglie dell’ art. 45 ministeriale. (“Fuor di metafora, crediamo che le Residenze – almeno per il momento e aldilà degli specifici contesti regionali – debbano rimanere delle azioni e non diventare soggetti […] ad ingessare una forma dinamica, in molti territori, ancora “in fieri” – si legge nel dossier).
Di fronte al teatro, il parco Tito Salomoni è un limes verde che separa la terra ferma, una strada cieca che finisce sulla porta di un circolo ricreativo gestito dalla comunità africana (di nuove e antiche migrazioni è viva questa terra), e il Po, imponente e prossimo a gettarsi nel mare.
Le righe che seguono sono la restituzione di un incontro avvenuto con il Teatro Nucleo ad inizio giugno, accompagnato dalla lettura di alcuni saggi che ne approfondiscono il percorso artistico ed umano. Qualora non specificato, i passi citati sono tratti da “Teatro in esilio, Appunti e riflessioni sul lavoro del Teatro Nucleo” di Horacio Czertok (ed. Bulzoni), da “Un’avventura utopica. Teatro e trasformazione nell’esperienza di Gruppo Teatro Comunitario di Pontelagoscuro” a cura di Greta Marzano e Erica Guzzo (ed. Titivillus) e da “Signora Memoria. Il teatro, un metodo di ricerca storica nell’ Universo Femminile” a cura di Cora Herrendorf e Roberta Scanavini.
Teatro Nucleo, che Klp intervistò esattamente un anno fa sempre in occasione del festival, nasce nel 1974 a Buenos Aires da Cora Herrendorf e Horacio Czertok. Erano compagni del gruppo teatrale Comuna Baires, ma quando Czertok fu sequestrato, la Comuna partì per l’Italia. Cora e Horacio, dopo il suo rilascio, tentarono di restare comunque in Argentina come Teatro Nucleo finché fu loro possibile, ovvero fino al 1976, anno del colpo di stato del generale Videla. Quando le condizioni peggiorarono, raggiunsero anche loro l’Italia. E’ l’anno del Festival dei Gruppi di Teatro di Base a Casciana Terme, il 1977.
L’episodio del sequestro, delle torture subite e la tragedia in corso dei desaparecidos vengono narrati in quell’occasione dallo spettacolo “Herodes”. Dovettero tuttavia interromperlo di fronte allo sguardo di spettatori che ritennero l’accanirsi dei due aguzzini (gli attori Hugo Lazarte e Horacio Czertok) sul corpo di Cora, un’“esibizione acritica di violenza”. Per Teatro Nucleo fu inizialmente un doppio esilio, quello dall’Argentina e quello in Italia, generato dalla diffidenza dei compagni europei. Fu l’incontro con Antonio Slavich, impegnato nella battaglia per l’apertura dei manicomi al fianco di Franco Basaglia e di Psichiatria Democratica ad avvicinare Teatro Nucleo a Ferrara e aprire loro altre vie.
“Noi eravamo esuli che non volevano accettare la condizione di esuli – la compassione pelosa, un passaporto valido solo per i confini della nazione che ci ospitava, diverse forme di carità. Volevamo essere invece presi per quello che più ci restituiva dignità: emigranti. Volevamo pagare il nostro affitto, il nostro vitto, la scuola dei nostri figli. Volevamo farlo con il teatro che avevamo imparato in Argentina”.
Negli anni le vie furono molteplici: i laboratori di teatro all’interno dei manicomi, con uomini e donne che, se all’esterno erano chiamati “matti”, potevano finalmente essere guardati dai normali come “esploratori di mondi agli altri preclusi” (è Czertok a usare questa definizione); la pratica del teatro di strada, del villaggio itinerante della Mir Caravan, lo spettacolo “Quijote”; lo stabilirsi infine negli spazi dell’ex-cinema di Pontelagoscuro (ora il Teatro Julio Cortàzar); le esperienze del Gruppo Teatro Comunitario con gli abitanti locali, l’incontro con Antonio Tassinari, il progetto “Signora Memoria” curato da Cora Herrendorf e “Asylum. Il manicomi delle attrici”.
Da queste esperienze nascono inoltre “Il Paese che non c’è, La patria nuova” e il repertorio di canzoni popolari. Si lavora al recupero della memoria collettiva di Pontelagoscuro, una terra di erranti e contadini.
Ed è un gruppo di teatranti esuli, rivendicatisi migranti, “ma così come eravamo apparsi dal nulla, al nulla ritornavamo”, a creare tutto questo. Una storia di accoglienza che oggi sfuggirebbe alle logiche di troppi progetti che da bando si accaniscono per l’integrazione dei rifugiati politici dei recenti flussi migratori, spesso sottovalutando di tutelarne il loro ruolo proprio come soggetti attivi, artisti e proponenti delle proprie istanze.
A testimonianza della storia composita di questa comunità vi sono anche i murales, realizzati a più mani con gli abitanti del luogo da Ana Serralta e Omar Gasparini, membri del gruppo di teatro comunitario argentino Catalinas Sur. Sulla facciata le vicende di Teatro Nucleo a partire dall’abbandono di Buenos Aires, mentre sul retro vi è la storia di Pontelagoscuro, un delicato “Amarcord” felliniano su parete.
In “Teatro in esilio – Appunti e riflessioni sul lavoro del Teatro Nucleo” Horacio Czertok parla di queste esperienze, del teatro negli spazi aperti come “operazione di giustizia elementare” e redistributiva, dello scoprirsi come “ladri di tempo” nei confronti di quei non-spettatori intercettati in una piazza trasformata in luogo teatrale, e parla del rapporto tra etica e genialità, di forza morale. Parte da Clausewitz e, attraverso un excursus argomentativo suddiviso in vari capitoli (“Un generale prussiano al servizio dell’arte teatrale”; “Strategia e forze morali”, “Audacia”, “Perseveranza”, “Sorpresa”…), si arriva Giovanna d’Arco e a Stanislavskij.
La strada, l’erranza, l’itineranza si trasformano dunque in una palestra umana ed artistica: “La capacità di crearsi appropriate difficoltà, che spingano a crescere, indica la maturità dell’attore” (e dell’Uomo).
Le contingenze della storia condizionano e modellano il metodo di lavoro: così come la censura, per Borges, costringe l’artista a trovare nuove vie, a cercare la “ferita” da attraversare per aprirsi un nuovo varco, così una comunità può farsi luogo dove è “l’essere mancanti” a rivelarsi e ad essere accolto. Il vuoto e l’assenza, elementi del fare teatro. Ma il teatro non è, per Teatro Nucleo, né terapeutico né strumento clinico:
“Ci interessa la creazione teatrale, non la ricerca di guarigioni: in qualsiasi situazione ci troviamo ad agire, e con chiunque il nostro intento è creare. Suscitiamo nelle persone una tensione creativa, ed è questa a motivare tanto i gesti e le azioni interne – che tendono ad una integrazione forte della personalità – quanto quelli verso l’esterno, che altri possono leggere come guarigione”.
Lo sguardo è rivolto ai maestri: Stanislavskij, poi Artaud, Copeau, Mejerchol’d, Vachtangov, Layton. E poi il confronto con Grotowski, Eugenio Barba, il Living Theatre.
Da queste esperienze si arriva infine a Totem Arti, uno degli esperimenti più recenti delle attività della compagnia sul territorio. Il tessuto sociale è nel frattempo mutato, Teatro Nucleo ha vissuto l’abbandono di alcuni compagni di strada, l’arrivo di nuovi. Eppure, così come del passato di Pontelagoscuro resta l’eco nell’aria calma di campagna che si respira nel reticolato delle sue vie, così l’eredità biografica del primo Nucleo scorre viva dalle radici agli ultimi germogli.
Né sacralizzata né ingombrante, la cura della memoria è vissuta come ciò che calcola e prevede le molte strade del futuro, una chiave interpretativa imprescindibile per l’oggi.
La direzione artistica di Totem Arti è di Natasha Czertok, figlia di Cora e Horacio, coadiuvata da un’équipe attivissima. Quattro giornate di un fitto programma che include le restituzioni sceniche dei laboratori condotti nelle scuole primarie e secondarie “Il mondo dei grandi” (Yjet ne Kaçele/ Nati dal Nulla/ Teatro Cosquillas); spettacoli per bambini diventare infine spettacoli per adulti divertiti, “Fischietta torna a casa” (Theano Vavatziani), “Il Re tutto cancella” (Teatro Perdavvero); la performance “Steli” di Stalker Teatro; infine “WS Tempest” di Teatro del Lemming; “IoHero” di Respirale Teatro; “Archivio delle anime” del Centro Teatrale Umbro; “Baracca e burattini” di Teatro Potlach.
E’ a posteriori, dopo la lettura di “Un’avventura utopica”, che riesco a dare voce ad una sensazione protrattasi per tutta la durata del festival. Dalla testimonianza di un attore del Gruppo Teatro Comunitario: “Mischiare le generazioni e far saltare fuori qualcosa di nuovo. Questa è una delle cose più belle, è un perché ed è un obiettivo dal quale discendono tutte le altre motivazioni”.
Ciò che infatti si osserva al Teatro Julio Cortàzar, e che oggi lo rende forse davvero un’eccezione, è proprio la spontaneità del suo “meticciato anagrafico”, una preziosa rarità in un momento storico che facilmente blinda l’individuo in progressive categorie anagrafiche, strumento tanto caro alle indagini di mercato, e nei corrispondenti pretesi luoghi d’appartenenza, di consumo, d’intrattenimento e di formazione. Per lo più impermeabili l’uno all’altro.
E’ sintomatico di una società in sofferenza dunque che un atto così semplice come veder “fare le cose assieme” possa davvero generare stupore. Accade qui, a Teatro Nucleo, in eredità, certamente, del progetto del Gruppo Teatro Comunitario, ma anche nel rispetto verso la compresenza di esigenze e radicalità differenti che non sempre coincidono, ma che crescono e vivono parallele e si contaminano. Totem Arti convive con lo spirito delle iniziative territoriali precedenti di Teatro Nucleo e le nuove presenze spronano al recupero e al riallestimento di vecchie produzioni.
Me ne parlano ad esempio Martina Pagliucoli, attrice e organizzatrice di compagnia, e Cora Herredorf, regista, in merito allo spettacolo “Della mano”, liberamente ispirato al “Le serve” di Genet, ma rimesso in scena attraverso un lungo laboratorio che ha avuto le nuove interpreti e le loro istanze come protagonisti.
Lo si evince inoltre dalle conversazioni fatte con molti dei componenti del gruppo. Mi narrano della loro esperienza qui, di come si sono legati al progetto, ed ogni testimonianza è filtrata dalla specifica individualità del mio interlocutore, dalla sua visione e definizione di comunità, ma sempre in difesa (Un equilibrio mai facile tra soggettività individuale plurale. La comunità può essere anche terribile).
A questo “meticciato anagrafico” non resta immune neppure il pubblico. Si osservano infatti i più piccoli distrarsi di fronte ad uno spettacolo clown che vorrebbe, per linguaggio, avvicinarli, e invece sgattaiolare curiosi tre le sedie allestite per gli spettacoli serali. Sono i figli dei membri di Teatro Nucleo e i bambini del quartiere. Prendono posto silenziosi, mentre gli adulti si fanno catturare dal clown “Fischietta” e trasformano lo spazio scenico in un luogo di loro divertita autoironia, all’interno del quale perdere e sovvertire la compostezza dei ruoli.
Accade inoltre che all’improvviso si venga adunati in un angolo del parco Salomoni dal vociare affaccendato di un gruppetto di bimbe e si assista al loro improvvisato teatrino. E’ la messa in scena di una brevissima fiaba. Una bambina felice passeggia nel bosco. La figura del Lupo è sostituita dalla Noia che aggredisce la bambina felice. La piccola è ora annoiata e non riesce più a muoversi, finché l’invocazione di una figura dai poteri magici non la libererà e si avrà il lieto fine: la libertà dal mondo grigio.
Totem Arti si rivela espressione di un’esperienza teatrale che negli anni si è voluta spazio aperto, mutevole, metamorfico. In un’era di “pacificazione coatta” (se ne parla sempre più spesso sia per descrivere ciò che avviene sul palco in rapporto allo spettatore, sia per parlare di ciò che avviene politicamente attorno), come sopravvive un’esperienza di comunità come quella di Teatro Nucleo a Pontelagoscuro? Vi può essere dunque theatron, “luogo dello sguardo”, luogo della condivisione? Come tutelare, ad esempio, la spontaneità di un processo di lavoro comunitario che ha portato alla realizzazione di “Signora Memoria” o di “Asylum. Il manicomio delle attrici” da un momento di convergenza di plurime politiche culturali che abusando del termine “femminile” ne alimentano la normazione imposta?
Sono domande che emergono in una conversazione pomeridiana con Cora Herrendorf. L’apertura al confronto e il mantenimento di una radicalità (quella forma di “fede” di cui parla Czertok citando Giovanna d’Arco) senza asserragliarsi al proprio interno, continuano ad essere coltivati come valori.
Ciò che è comune (la narrabilità reciproca del futuro) poggia sulla valorizzazione del proprio, scoperto come insufficiente a garantire la pensabilità del futuro, ma punto di partenza indispensabile per costruire il legame con l’altro in vista di un futuro narrabile”.
(P. Raciti, La cittadinanza e le sue strutture di significato”)
Il pensiero politico sposa dunque “il lavoro dell’attore su se stesso”? Cercare un “teatro senza prime donne” è anche desiderare una società senza prime donne pronta ad accoglierlo e a capirlo. La comunità lavora su questo. Chi incontra in prima persona la violenza delle istituzioni totali, d’altronde (ed è il caso di Teatro Nucleo, in fuga dalla dittatura prima e in lotta contro le istituzioni psichiatriche poi), sa bene che le schizofrenie dell’“Io” possono esserne il punto d’origine e partenza. Il metodo non è scisso dall’obiettivo, né la ricerca del genio creativo dall’esercizio dell’etica.
E di questi tempi, pensare che proprio nei luoghi lontani dai ritmi frenetici della sovrapproduzione culturale delle città, si coltivi ancora l’Utopia, il teatro come Libera Repubblica, volutamente mantenuto ai margini e al di fuori del “teatro d’establishment” è una boccata d’ossigeno. Non da intendersi quest’ultimo come male assoluto, se è vero che Teatro Nucleo si confronta con istituzioni e gruppi informali proprio in difesa dell’apertura verso l’Altro che ha segnato il suo percorso, ma certo pretendendo che, parallelamente ai luoghi canonici di spettacolo, possa fiorire – con i suoi aspetti inediti – tutto ciò che resta fuori.
Per dirla con le parole di Horacio Czertok: “Il frequentare teatri non indica che si possieda una cultura teatrale. Si può andare in una biblioteca senza aprire mai un solo libro, o in chiesa senza essere credenti: tante persone ci vanno perché amano l’atmosfera, si sta bene, si trovano buone compagnie o perché vi sono dei bei dipinti. Non c’è niente di male. A patto che questo non ci confonda. Conosco infatti credenti che non vanno in chiesa perché sentono che proprio quell’ambiente affoga la loro fede: hanno bisogno dell’ aria aperta o della sommità di un colle”.