Il teatro alle Officine Caos genera XXX Differenti Sensazioni

Teatro Nucleo|WS del Teatro del Lemming (photo: Dario Rigoni)|Mad in Europe
Teatro Nucleo|WS del Teatro del Lemming (photo: Dario Rigoni)|Mad in Europe

Tra le interazioni artistiche della rassegna Differenti Sensazioni di Stalker Teatro, conclusasi sabato scorso a Torino, non poteva mancare la letteratura, protagonista di una delle serate della XXX edizione.
Si sono infatti avvicendati sul palcoscenico delle Officine Caos due capolavori della letteratura europea: dapprima il flusso di coscienza woolfiano di Orlando, dopodiché la tragicomica quête dell’hidalgo della Mancha.

Protagonisti del moment of being sono Silvia Battaglio e la sua counterpart Lorenzo Paladini. “Orlando. Le Primavere”, dopo aver conosciuto nel corso di questi mesi un lento rodaggio – a partire dal suo debutto nei primi, freddissimi, giorni del 2017 sul palco del Teatro Gobetti all’interno del rassegna “Il Cielo su Torino” – ci appare oggi uno spettacolo di raffinita levità e di profonda pacatezza, nonostante smuova corde dolenti dell’identità umana. Una metamorfosi continua – la sua – che, se nelle suggestioni musicali, si appoggia ad Anja Lechner, Luc Ferrari e Paolo Angeli, nelle cromie ha piuttosto il sapore onirico della berceuse.

Spazio buio, lanternine pendenti che emanano flebili lucori, abiti “notturni” e sottovesti sui quali si impongono all’occasione stivaletti, giacchettine e giri di perle. Nell’intervallo tra il nero più violento e il bianco più pallido, tra la sottrazione e la somma di tutti i colori, si incastrano le azioni leggiadre e le parole poetiche del Giano bifronte al centro della scena. «Attraverso un’identità fluida, cangiante, in perenne rinascita e libera dalle definizioni – spiega la regista e interprete Silvia Battaglio – Orlando si fa uomo e donna, e nell’interscambiabilità dei sessi porta in luce il prezioso valore che risiede nell’unicità dell’essere umano, diventando metafora del superamento del concetto di separazione dei generi, dei ruoli sociali, delle convenzioni. Attraverso le sue infinite primavere, restituisce corpo e voce ai molteplici “io” che regnano nella natura umana».
Di intensità ammirevole entrambi gli attori, con menzione speciale proprio al giovane Lorenzo Paladini; essi guidano il pubblico – descrivendo in aria e sul piano di capestìo gesti ampi e armonici – in una ricerca di sé che è insieme atto d’arte e d’amore.

Da Arezzo ai mulini a vento di Cervantes il passo è breve. Molto stimolante, almeno sulla carta, il progetto del gruppo Diesis Teatrango, formazione toscana attiva nel sociale.
Come il capolavoro castigliano alternava inconsapevole follia e scaltra lucidità, così anche la compagnia si muove in uno spazio liminare tra pianificato e improvvisato, tra scritto e non detto, con una continua disponibilità alle incursioni, sia dei ragazzi disabili del Laboratorio Permanente di Teatro Sociale, sia del pubblico (ad un certo punto della performance, infatti, alcuni spettatori vengono scelti dalla mediatrice Barbara Petrucci e “scagliati” in scena con l’invito a seguire, replicare o integrare le azioni e le battute di Don Chisciotte/Piero Cherici e di Sancho Panza/Andrea Roselletti, a seconda della propria affinità d’animo). Il tutto è guidato dalla narrazione di Filippo Mugnai.

Lo “squilibrio” di cui questo lavoro si fa testimone è un dato prezioso, sebbene non venga sorretto da una recitazione adeguatamente coinvolgente, e che è invece prerequisito essenziale per fare un buon teatro sociale e di comunità. A dar colore al gioco scenico sono comunque, per fortunata congiuntura, proprio gli spettatori infiltrati, con i loro lampi di genio e un po’ di simpatia. Interessante la scenografia: sono disseminati a terra numerosi disegni, figurazione concreta dei “mondi possibili” che la letteratura dischiude. Questa sovraccarica pavimentazione cartacea è solcata, in compagnia dei propri doppioni, dal cavaliere errante, che ha sempre qualche oggetto da tirare fuori dalla valigia per far volare la fantasia degli astanti.

La scena di “Ritratto di” di Tida, con Elena Pisu e Michele Di Erre, racconta di una nascita, forse una nuova nascita, attraverso la quale, come usciti dal grande bozzolo delle nostre autoimposte limitazioni, possiamo avere l’opportunità di ri-scoprire il nostro corpo e le sue inevitabili mutazioni.
Da un ammasso di stracci è partorito un corpo di donna, e un uomo, un pittore, lo osserva disegnandone i tratti durante la sua evoluzione, come un bambino nei suoi primi passi di consapevolezza.

Elena Pisu mette così a nudo il proprio corpo per raccontarci, senza risposte né interpretazioni, la mutevolezza di ciò che siamo.
Michele Di Erre, attraverso i tratti disegnati e dipinti, prova a fotografarlo, questo corpo, un compito che risulta difficile e mutevole proprio per il costante cambiamento: bisogna essere liberi e disposti a modificare il proprio “tratto” per non risultare immediatamente ormai “vecchi”.
Prodotto di una ricerca dove l’immagine (quella della danzatrice sotto i nostri occhi) si fonde all’immagine (il pittore riporta in tempo reale l’immagine del corpo, restituendocela attraverso il suo sguardo) nel tentativo di restituire il ricordo del corpo come “mappa del vissuto”, “Ricordo di” è una interessante operazione che potrà essere ulteriormente sviluppata, nell’ottica di offrire allo spettatore ancora ulteriori spunti di riflessione.

Fra realtà e simulazione, caricatura e autopsicografia, si snoda la singolare cognizione del dolore della compagnia di ricerca C&C, ideatrice dello spettacolo di teatro-danza “Maria Addolorata”.
In questo primo capitolo della loro “Trilogia sull’esperienza universale della sofferenza”, gli interpreti Carlo Massari e Chiara Taviani, ex danzatori del Balletto Civile di Michela Lucenti, creano un’originale drammaturgia fisica in cui il dolore, invisibile antagonista e persecutore, parla attraverso il linguaggio del corpo e lo espone in tutta la sua nuda fragilità: con atletico e snodato naturalismo di movimenti, i due artisti riescono a riprodurre l’intero ventaglio di traumi e perturbazioni umorali che vessano l’umana esistenza, giocando sulle pose più stereotipate dell’afflizione e dei cerimoniali di reciproco conforto, ammiccando grottescamente all’iconografia della pietas mariana e della passione cristologica, e infine sconfinando nel prevedibile terreno coreografico delle delusioni sentimentali.
Una spiritosa carrellata di urti, cadute acrobatiche e ferite emotive, intercalate dal patetico singhiozzare delle lattine di birra e del canto, e da un’ironica scelta musicale che funge da contrappunto umoristico alle tragicomiche situazioni mostrate in scena: dallo sfrenato samba di “Meglio stasera” di Henry Mancini al melanconico “Wanderer” di Johnny Cash, per finire con il romantico idillio di “Cheek to Cheek”, celebre successo di Fred Astaire e Ginger Rogers.

E dalla scanzonata rappresentazione del dolore del duo C&C si passa all’arcano ritratto di desolazione offerto da “Domino”, primo embrione di una performance di strada prodotta dal Teatro Nucleo di Ferrara e diretta da Natasha Czertok che, insieme a Rémi Boinot, Guillermo MacLean e RedoLab, ricostruisce alle Officine Caos un suggestivo microcosmo scenografico, che pare diretta emanazione dei profetici versi di Thomas Eliot: “Questa è la terra morta / Questa è la terra dei cactus / Qui le immagini di pietra / Sorgono, e qui ricevono / La supplica della mano di un morto / Sotto lo scintillio di una stella che si va spegnendo [The Hollow Men, 1925].
Un’umanità postuma, regredita a uno stadio barbarico quasi ferino, si aggira alla ricerca d’acqua per un’arida e desertica Wasteland, trascinando con sé i resti di una civiltà ormai estinta, ridotta a una carovana di spazzatura, frammenti e detriti custoditi dagli ultimi superstiti come preziosi e indecifrabili cimeli.
Al centro della scena, al posto dell’idolo di pietra eliotiano, si erge un cinereo ed enigmatico cubo di metallo – fin troppo ovvia citazione kubrikiana – che funge da motore immobile dell’intera azione, innescando un’originale partitura fisica e sonora, in cui la parola è sostituita da un’idioma inventato di versi incoerenti e privi di senso, e da una gestualità primitiva fatta di misteriosi rituali di comunicazione e di fertilità.

Se esteticamente apprezzabile è senza dubbio la ricercatezza dei costumi – che ricordano il distopico “Mad Max Fury Road” di George Miller – ancora incerta e povera di variazioni appare la struttura complessiva dello spettacolo, che resta volutamente ermetico dal punto di vista concettuale, come d’altronde il suo correlativo oggettivo: il criptico monolito che occupa l’attenzione di pubblico e attori con la sua muta presenza magnetica. Che si tratti di una metafora dell’impenetrabile dimensione del sacro?
Se da una parte il suo ruolo salvifico di Deus ex machina – che interviene ad innaffiare il simbolico girasole, unica speranza vitale della piccola tribù, e ridona la vista a un cieco – lascerebbe propendere per la lettura trascendente, dall’altra (con ennesimo richiamo a “2001: Odissea nello spazio”) “Domino” sembrerebbe volerci insegnare ancora una volta che l’atto fondativo della società, sua origine e fatale condanna, è l’intrinseca violenza di un gesto di appropriazione: l’invidia e l’avidità suscitate dal senso di possesso, che cancella ogni stupefatta meraviglia di fronte all’ignoto. E qui sta l’affascinante ambiguità del cubo, che si rivela al contempo dispensatore di miracoli ma anche di quegli stessi abiti che sono prima traccia di civilizzazione e pomo della discordia.

WS del Teatro del Lemming (photo: Dario Rigoni)
WS Tempest del Teatro del Lemming (photo: Dario Rigoni)

Un’altra ‘differente sensazione’ per “WS Tempest” del Teatro del Lemming, che completa invece un ciclo di lavori shakespeariani.
Una ventina di spettatori viene accompagnata in una sala in cui toglierà giacche, sciarpe e borse. Da lì, in silenzio, si è condotti in una sala buia in cui gli attori, disposti ai lati, accolgono il pubblico regalando il prologo della storia che andranno a raccontare.
In quello che viene definito “il fondo del mare” ecco allora una sequenza di scene che narrano non tanto la tempesta, quanto, attraverso la voce di Prospero, quel delirio che accomuna tutti i personaggi di Shakespeare, e che unisce anche il genere umano.
Nel buio appaiono le figure di Amleto, Macbeth e Re Lear, che ci vengono restituite attraverso una rilettura che pone in primo piano paure e debolezze, amore e odio, in un susseguirsi quasi ossessivo in cui la parola si mescola al corpo fisico, che si denuda proprio nel tentativo di scoprire il baratro nascosto in ognuno di noi, dove la violenza – fisica e verbale – spesso la fa da padrona.
Ancora una volta – com’è tipico del lavoro della compagnia veneta – gli spettatori vengono toccati, spostati, sfiorati. Ma stavolta rispetto ad altre (il pensiero va all’esperienza di una decina di anni fa con “Edipo – Tragedia dei Sensi per uno spettatore”) c’è qualcosa che non funziona. Gli spettatori rimangono confusi, spaesati, perché il contatto risulta troppo “mordi e fuggi”, provocando semmai un effetto di allontanamento; se si cerca il contatto, il pubblico lo deve percepire come reale, vero.

Un altro salto avviene con Angela Dematté, che è prima di tutto una drammaturga, e nel suo “Mad in Europe” si riscopre il piacere di un testo che funziona, che arriva dritto dove deve arrivare. Che si fa comprendere, che pone in essere una riflessione, e che soprattutto tiene lo spettatore in ascolto, non solo con le orecchie.

Attrice e drammaturga la Dematté, dopo un diploma nel 2005 all’Accademia dei Filodrammatici di Milano, nel 2009 vince il 50° Premio Riccione con il suo primo testo, “Avevo un bel pallone rosso”. Nel 2013 vince poi il bando de I Teatri del Sacro con “Stava la madre” messo in scena con la regia di Sandro Mabellini.

“Mad in Europe” nasce, successivamente, da più suggestioni: la parola e il suo significato, gli incontri della Commissione Europea, una prozia che per 80 anni è stata in manicomio, e infine una gravidanza arrivata a sorpresa. Il risultato di questo mix di argomenti apparentemente slegati fra loro è invece un lavoro estremamente interessante.

Sulla scena Dematté si sdoppia per raccontarci le vicende di una donna impazzita durante una seduta del Parlamento Europeo: c’è lei, la donna che non ricorda più nulla di sé stessa e che parla mischiando insieme lingue ed idiomi, e c’è la “voce narrante”, che è sempre lei, una donna piena di incertezze e paure che parla insicura di tutto ciò che dice, chiedendo conferma se le parole usate sono quelle adatte.
La “mad” ritroverà alla fine il suo dialetto, quello di quando era bambina, quei suoni che aveva deciso di ripudiare nel suo progetto di vita europeo e libero. Si ricongiungerà così ad un altro modo di (soprav)vivere, lontano da una globalizzazione che ci vorrebbe tutti uguali.
In scena, in questo suo personale “grammelot”, Demattè è bravissima. E mentre ci racconta di questa improvvisa “pazzia”, ci fa soprattutto riflettere sul significato profondo di “comunità”. Dove inizia il bisogno di essere accettati? E dove ci porta (la paura di) una globalizzazione che mira a renderci tutti uguali?

Mad in Europe
Mad in Europe

Differenti Sensazioni chiude la sua XXX edizione con la compagnia romana Cie Twain, fondata nel 2006, e diretta dalla coreografa Loredana Parrella, che ha al suo attivo una importante attività di interprete e di coreografa/regista.
“Lei e Tandredi” è una produzione del 2010. L’ispirazione arriva dalla battaglia fra Tancredi e Clorinda nella “Gerusalemme liberata” di Tasso. Da lì lo spettacolo cerca una evoluzione nel raccontare i guerrieri di oggi, gli eroi e i caduti.

In un lavoro estremamente fisico, gli otto danzatori/performer per 75 minuti non si risparmiano proponendo, una dietro l’altra, scene che ci immergono nella lotta, nella fatica, nella violenza e nei soprusi. Ma senza dimenticare anche l’amore e l’amicizia.
I corpi dei giovani danzatori costruiscono, davvero instancabilmente, un apparato scenico che arriva così a parlarci dei nostri conflitti contemporanei: ecco allora l’elenco dei morti per la giustizia e la pace, da Giovanni Falcone a Ilaria Alpi.

In una tematica che diventa quindi assai ampia, c’è forse perfino troppo in “Lei e Tandredi”, tanto da chiedersi quale sia davvero il focus dello spettacolo. Il troppo materiale rischia di confondere lo spettatore: un lavoro in sottrazione potrebbe permettergli di non perdersi.

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