Il teatro nel fumetto e il fumetto nel teatro: ci ha pensato, in questo periodo di stasi da Covid-19, Paolo Faroni, regista ed attore piemontese di nascita, milanese d’adozione.
Oggi ci racconta il suo percorso, mostrandoci poi le prime due puntate del suo lavoro a fumetti “V for Vairus”, che prende spunto dal teatro in tempi di coronavirus.
È nata prima la tua passione per il teatro o per il fumetto?
È nata prima quella per il fumetto, perché cominciata quando ero ragazzino. Poi nella vita ho scelto di fare teatro, non sono un illustratore. Il fumetto lo uso come spunto creativo per la materia teatrale, come un modo di pensare.
Quando hai iniziato a fare i primi fumetti?
Avevo otto o nove anni, disegnavo delle storie per i miei genitori. Facevo già il fumetto spillato. Dopo, alle medie e alle superiori, facevo fumetti per i miei compagni di classe. Erano delle strisce ironiche sulla vita della scuola, sulle cose che succedevano in classe, aneddoti, prendevo in giro alcuni compagni, sbertucciavo gli insegnanti.
Cosa ti piace del fumetto?
Mi è sempre interessato come fruizione artistica, a mio parare è una delle arti più innovative del ‘900.
Trovo che sia letteratura, non solo intrattenimento. Mette insieme immagini e poesia testuale. Per scrivere un buon fumetto bisogna avere competenze in tre aspetti: nella regia, nel disegno e nella drammaturgia. È un genere composito che richiede più maestranze. Il fumetto mi ha sempre affascinato e col teatro questa fascinazione si è amplificata, perché trovo che ci sia molto teatro nel fumetto.
Ci sono opere o autori che ti hanno particolarmente influenzato?
Uno dei miei autori preferiti è Andrea Pazienza, per la sua capacità di trarre le storie dal contesto in cui viveva… Per la capacità di trasformare in epica la realtà, uscendo da una questione autobiografica o auto referenziale. Per l’estrema fantasia e la capacità di mescolare i generi, per l’ironia, e per la capacità letteraria di inventare linguisticamente. Pazienza ha molto da dire ai teatranti. Lo trovo teatrale per la drammaturgia, per i conflitti…
A me piace scovare il teatro nei luoghi dove non c’è. Mi capita spesso di ricevere indizi sul teatro da luoghi in cui la forma e lo stile non lo richiedono.
Hai avuto una formazione specifica all’illustrazione?
No, sono assolutamente autodidatta.
Quale tecnica utilizzi?
Utilizzo prevalentemente i pennarelli, il bianco e il nero. I colori li uso pressocché unicamente nelle mie locandine. Uso i colori primari perché acchiappano subito.
Come definiresti lo stile delle tue locandine?
Uno stile che rimanda al fumetto, in quanto mi aiuta a concentrare l’attenzione sull’immagine in sé, nella sua totalità. Lo stile è quello della copertina da fumetto, deve colpire subito, si deve far vedere. Per questo uso colori forti, primari, alla Andy Warhol… è una scelta di marketing.
C’è un filo rosso tra il tuo fare teatro e la creazione di fumetti?
Quando facevo regia alla Paolo Grassi, usavo il disegno per impostare i progetti, ma non l’ho mai usato per trarre lo spettacolo dal fumetto. Semplicemente uso i disegni, a mio titolo personale, per inquadrare un’atmosfera o un ambiente, come elemento di trasposizione… Non è una cosa sistematica.
Hai mai sperimentato forme di connubio artistico tra teatro e illustrazione?
Solo in un caso. Un personaggio di un mio monologo, “WOOF! Un melopunk”, fortemente fumettistico. Nella recitazione c’era un elemento grottesco che potremmo definire fumettistico, ma questa matrice non usciva in maniera esagerata… Era solo un rimando.
Credo che nel teatro si possa prendere dal fumetto. Ad esempio, immettere quella sorta di esagerazione in un viso, in un corpo… Il disegno può permettersi di stilizzare un movimento, di renderlo meno realistico, per amplificare un effetto emotivo. Credo che questo abbia molto a che vedere col teatro.
Attenzione però: il segno sulla carta è una cosa e a teatro il corpo è il corpo; quindi non si tratta di imitare il fumetto, per non correre il rischio di ridurre la recitazione a una macchietta, ma di mettere l’anima del fumetto dentro alla drammaturgia. Aderire all’espressività del fumetto, pur rimanendo dentro ai limiti del teatro. Non è detto che poi quel rimando al fumetto si noti guardando lo spettacolo.
Qual è il tuo ultimo spettacolo?
“Un’ora di niente”, uno spettacolo che si basa sulla comicità. Lì il fumetto non c’è. Anche se lo possiamo ritrovare nel tempo comico. In questo senso il teatro può rubare dal fumetto, come adoperare la pausa, la sospensione… Per me il fumetto è fonte di ispirazione, ma non necessariamente trova uno sbocco formale sulla scena. È un motore di sintesi, ma non una fonte dichiarata.
Com’è nata l’idea di “V for Vairus”?
L’idea è nata stando a casa, non avevo niente da fare. Mi sono messo a disegnare, sono abituato a prendere spunto dalle cose che mi capitano, dalla situazione che mi circonda. Uno dei problemi che la gente sta vivendo in questo momento è la difficoltà a stare a casa. Poi sono venuti fuori gli #stateacasa che mi hanno ispirato a inventare la storia, ambientata però in un futuro distopico in cui siamo reclusi da oltre dieci anni: lì si spara alle persone che tentano di uscire. È un divertissement, un po’ provocatorio, un po’ cattivo… Il titolo prende spunto da un fumetto molto famoso, di Alan Moore, “V for Vendetta”.
E il personaggio di Alberico Astorpi?
È un rimando ironico, è una citazione di un attore che io stimo molto, Alberto Astorri, della compagnia Astorri Tintinelli. Una compagnia che ha fatto ricerca e sperimentazione e che nel panorama italiano possono passare per “i duri e puri”, come degli anarchici in qualche modo. Io, esasperandone i tratti, ho creato questo personaggio che si butta dalla finestra “perché se non faccio teatro… lo streaming non esiste…”.
Come ti sei approcciato alla creazione del fumetto?
Come prima cosa butto giù il testo, sul quaderno, come se fosse un testo teatrale. All’inizio non c’è il disegno, ci sono solo le parole. Anche i personaggi nascono subito, poi penso a come connotarli… Infine passo alla fase di disegno. In realtà le illustrazioni le creo a pezzi, poi le assemblo. Ad esempio, disegno lo sfondo, dei pezzi di città, poi a parte disegno un personaggio. Sono disegni separati fra loro che assemblo con Fotoshop. Le tavole sono virtuali.
Quante puntate hai realizzato sino ad ora?
Le due puntate che vedrete qui sotto. Ho scelto di creare delle tavole singole affinché il formato fosse facilmente fruibile anche dal cellulare. Ed è anche per questo che le storie sono abbastanza brevi.
Come stai vivendo questa situazione di emergenza Covid in quanto attore e regista?
Sin da subito si è creata una situazione di horror vacui da parte della classe attoriale. Personalmente cerco di non farmi logorare dalla situazione. Non amo fare cose in streaming per supplire a una mancanza. Ho rifiutato anche proposte di fare cose online, lezioni, addirittura uno spettacolo. Non lo sento come un surrogato attendibile. Bisogna anche saper stare fermi. Piuttosto scrivere, scrivere per dopo, io sono un attore-autore. Nel mio lavoro sono sempre esistiti dei tempi di sospensione, perché non sempre si va in giro. In quanto attore-autore sono abituato a riempire questi spazi scrivendo lavori nuovi.
A tuo avviso cosa sta provocando nel mondo dell’arte? Cosa sta venendo alla luce?
Il teatro come il luogo dell’arte viene sempre tendenzialmente per ultimo, ed ora, in questo contesto, per la sua natura aggregativa, viene tagliato fuori. Ci vorrebbe un’attenzione maggiore verso questo mondo, quando si riprenderà sarà necessario avere una grande cura di un settore così delicato, anche da un punto di vista burocratico, a livello statale. Il sistema teatrale era già in difficoltà in precedenza, in alcune sacche il coronavirus c’era già. Credo che una parte del sistema teatrale fosse in quarantena da anni, in un limbo beckettiano, per così dire.